‘Padre, se vuoi, allontana da me questo calice’. Ritiro di Pasqua dei docenti di religione

‘Padre, se vuoi, allontana da me questo calice’. Ritiro di Pasqua dei docenti di religione

articolo ripreso da portalecce

Venerdì scorso i docenti di religione cattolica della diocesi hanno avuto la possibilità di partecipare all’incontro di spiritualità che si è svolto a Lecce presso la cappella del Centro di pastorale e cultura “Giovanni Paolo II”.

 

 

 

L’incontro guidato dal direttore dell’Ufficio diocesano Irc, don Alessandro Saponaro, ha avuto il suo momento centrale nella riflessione proposta da don Stefano Spedicato, direttore dell’Ufficio catechistico diocesano, sulla figura di Cristo, buon samaritano, che porta su di sé il carico del dolore umano.

Dopo i saluti del direttore ai numerosi docenti di religione intervenuti e l’esortazione a testimoniare, in modo sempre più coraggioso, la fede e la speranza in Cristo Gesù, che sulla croce ha vinto per sempre il potere del male con la potenza del suo amore, don Stefano ha invitato i docenti a puntare su Dio, prima ancora che puntare su sé stessi: “La Parola di Dio è un fortissimo richiamo alla vita interiore, a condire la nostra vita di una solida spiritualità, a non rimanere alla superficie, a non rimanere nell’esteriorità – afferma il direttore dell’Ufficio catechistico diocesano – ma a comprendere che tutto ciò che viviamo nella nostra vita interiore può venire da Dio, può venire dal Signore. Puntiamo su Dio, sulla bellezza e immensità di quello che lui ogni giorno, da sempre, continua a fare per noi. È Lui che ci guarisce da ogni sofferenza”.

“Il buon samaritano è un esempio per noi – sottolinea don Stefano -.  Anche noi dobbiamo fare come lui. Ma esiste anche un’altra lettura, di taglio più spirituale, che risale ai Padri della Chiesa, in particolare a Sant’Agostino. Il vero buon samaritano è Gesù stesso. Ed il malcapitato, lasciato sulla strada mezzo morto dai briganti, è ciascuno di noi. È ogni uomo che ha fatto l’esperienza del peccato. Il peccato ci lascia mezzi morti. Perché mezzi? Perché, finché siamo in questo mondo, abbiamo la possibilità di rimediare a questa situazione, non solo la possibilità, ma anche l’aiuto di Dio, senza il quale non ce la faremmo”.

Don Stefano ha preso per mano i docenti per ripercorrere insieme la strada che da Gerusalemme porta a Gerico: “Un uomo scende da Gerusalemme a Gerico. Scende. Chi ha avuto modo di vedere quei luoghi sa che si tratta proprio di una discesa. Ma il significato allegorico è evidente: Gerusalemme è costruita sulla cima del monte di Sion, è la città santa, la città di Dio, l’immagine del paradiso; Gerico invece è posta in una depressione, sotto il livello del mare. È uno dei luoghi più bassi della terra. E ai tempi di Gesù era famosa per essere una città dedita al vizio. È come dire: un uomo abbandona lo stato di amicizia con Dio e si avventura sulla strada del peccato. Questa decisione lo rovina, tanto che viene lasciato mezzo morto ai margini della strada”.

“Passano un levita e un sacerdote del tempio, ma tirano dritto – continua don Stefano -. La legge di Mosè e il culto del tempio non bastano a salvarci. Passa un Samaritano. Dicevamo che i Padri hanno visto nel Samaritano l’immagine di Gesù. E in effetti Gesù lo guarisce, versando sulle sue ferite olio e vino (simbolo dei sacramenti). Lo mette sulla cavalcatura, lo eleva cioè dalla condizione triste in cui si era trovato, e lo porta ad una locanda, dove potrà guarire del tutto. All’oste il Samaritano lascia un anticipo, il resto lo darà al suo ritorno. È la ricompensa promessa da Gesù alla fine dei tempi, ricompensa per chi si sarà preso cura del suo fratello”.

Il Samaritano è Gesù, il malcapitato, deriso, picchiato, denudato, derubato della propria dignità, sono io.

Questa parabola insegna tante cose: insegna a prendersi cura di chi ha bisogno, insegna a non disperarsi quando si è in difficoltà, perché il Signore veglia sul cammino di ciascuno, ed è pronto a risanare le ferite. Il Signore invita a non temere, a non scoraggiarsi, ad essere, come docenti di religione, generatori di vita, di amore e di una speranza immensa.

La relazione educativa o è generativa (amplia il naturale desiderio di far esperienza della realtà) o è degenerativa (chiude il desiderio, annoia, spegne il coraggio e la curiosità). È generoso chi genera, cioè chi afferma la vita dell’altro come necessaria e si impegna, come può, al suo compimento. Non c’è compimento senza concepimento, non c’è generazione senza generosità. E una generazione non generata prima o poi crolla.

Si tratta di mostrare che ci si sente responsabili della vita degli alunni, magari con un sincero e sorridente «come stai?»: portare il peso a volte è semplicemente «dare peso». Un adolescente si decide a maturare se sente che un adulto vuole farsi carico della sua vita, perché così scopre che è buona, e il suo coraggio si attiva vincendo la paura, perché vede un altro impegnato per lui. Ciò che ci si aspetta da loro deve essere prima da un insegnante: questo è educare, e l’istruzione ne è solo una conseguenza. Ai docenti di religione chiedono di impegnarsi per un volto e, solo dopo, per un voto. Quel volto che ha attirato il buon samaritano sulla strada che da Gerusalemme porta a Gerico.

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