IUBILAEUM ORONTIANUM LYCIENSE. Il culto oronziano a Napoli/1: un’iconografia alternativa

IUBILAEUM ORONTIANUM LYCIENSE. Il culto oronziano a Napoli/1: un’iconografia alternativa

articolo ripreso da portalecce
e scritto da Andrea Pino

Una completa indagine sulla figura del patrono del Salento e, più in generale, sul suo culto, non può non tener conto, a nostro parere, del “fattore Napoli“.

 

 

 

Tra i primi agiografi del santo vi è del resto il prelato campano Paolo Regio (1541-1607), autore della Vita de’ Santi Giusto et Orontio Martiri, di cui già parlammo su queste pagine (LEGGI). È poi un dato di fatto che i principali protagonisti del risveglio della devozione oronziana in epoca barocca, il vescovo Luigi Pappacoda (1595-1670) ed il veggente Domenico Aschinia (†1662), abbiano avuto con Napoli un rapporto intensissimo. Il primo, nativo dei dintorni di Salerno, trascorse lunghi anni nella capitale del Mezzogiorno come uomo di fiducia degli ambienti del Sant’Uffizio. Ambienti cui il secondo era stato affidato in seguito ad una serie di esperienze mistiche avute in Calabria. In un’ottica più ampia tuttavia sarebbe necessario valutare le profonde influenze che la splendida metropoli partenopea esercitò sull’intera Terra d’Otranto fra il XVII ed il XIX sec. In riva al Tirreno sono infatti presenti delle importanti tracce oronziane che andrebbero valutate.

Esiste innanzitutto una Vita di Sant’Orontio pubblicata a Napoli nel 1664 (dunque quasi a ridosso dell’epidemia di peste che segnò la rinascita della venerazione del santo in Puglia). A redigerla è Donato Antonio Quarta, un leccese dottore in legge attivo nella capitale del regno. È interessante notare come tale scritto preceda quella che sarà considerata la versione agiografica ufficiale, l’opera I primi martiri di Lecce, composta da Carlo Bozzi solo nel 1672.

È però nella chiesa di San Pietro a Majella, gestita nel ̕600 dai Celestini e dove la famiglia salentina dei Maresgallo aveva un patronato, che si riscontra la più importante testimonianza di culto oronziano a Napoli. In questa chiesa è presente una cappella (la quinta a sinistra) consacrata al protettore di Lecce in cui sono custodite tre tele dell’artista tardo-barocco Francesco De Mura (1696-1782) raffiguranti il battesimo, il ministero e la morte del nostro santo. Si tratta di opere che propongono un’iconografia oronziana, per certi versi, alternativa. Nella bellissima scena della predicazione, ad esempio, il martire è ritratto come un vescovo imberbe mentre impugna il crocifisso e calpesta gli idoli pagani. Se quest’ultimo elemento rimanda, in maniera nitida, alla famosa tela di Giovanni Andrea Coppola (1597-1659), è invece l’aspetto giovanile del protagonista che apre una nuova area di ricerca.

L’Oronzo dipinto dal De Mura sembra infatti ricordare non poco l’immagine che compare sul frontespizio dell’opera Gli auguri all’illustrissima città di Lecce, firmata da Nicolò Perrone nel 1658 (LEGGI), ma soprattutto la figura di San Gennaro (†305), il celebre protettore di Napoli, raffigurato sempre glabro. Come leggere, nell’insieme, tutti questi dati? Senza dubbio, si può affermare che il culto di Sant’Oronzo, se non radicato almeno conosciuto nel territorio campano già nel ̕500, venne introdotto piuttosto presto a Napoli, dopo la pestilenza di metà XVII sec., da salentini lì residenti. Mentre l’iconografia del personaggio (nonostante quella canonica voluta da mons. Pappacoda) rimase per certi versi piuttosto fluida e risentì finanche di quella del patrono locale, Gennaro.     

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