Il culto delle ‘sacre teste’. I fatti del 17 maggio 1846 narrati dal Di Giorgi (II parte)

Il culto delle ‘sacre teste’. I fatti del 17 maggio 1846 narrati dal Di Giorgi (II parte)

articolo ripreso da portalecce
e scritto da Andrea Pino

Nella scorsa puntata abbiamo introdotto l’interessante documento, offertoci dalla dott. Giovanna Ciampa, Il 17 maggio nel solenne trasferimento della testa in legno di nostro santo dagli Angiolilli al duomo.

Si tratta di una breve relazione composta dal sacerdote Leonardo Di Giorgi nel 1846 su di un particolare episodio inerente il culto, tutto leccese, del capo di Sant’Oronzo. Considerando la delicatezza del tema, quelle nostre righe erano volte a sgomberare il campo da facili pregiudizi e superficiali valutazioni. Sono state inoltre tracciate delle coordinate storiche entro cui collocare lo sviluppo della singolare devozione. Proseguiamo ora la nostra analisi attraverso l’esame di ulteriori elementi. Un dato non trascurabile è il fatto che lo scritto del Di Giorgi risalga all’Ottocento. Nel XIX sec. infatti la religiosità popolare oronziana si conserva più fervorosa che mai. Al martire viene attribuita la salvezza di Lecce dai terremoti del 19 gennaio 1833, del 12 ottobre 1856 e del 27 agosto 1866 nonché dall’epidemia di colera del 1838. L’amore verso il santo si manifesta altresì con la realizzazione nel 1864 di una splendida statua argentea (quella che ancora oggi è protagonista dei festeggiamenti estivi) e con una rinnovata quanto notevole produzione agiografica e panegiristica. È in questa temperie religiosa, inevitabilmente intrecciata con gli sconvolgimenti socio-politici che caratterizzarono quel secolo, che il culto della testa del patrono raggiunse il suo vertice.

Ma cosa narra dunque il Di Giorgi? Lo scritto verte sulla scoperta, compiuta da alcuni presbiteri leccesi, di un manufatto ligneo raffigurante il capo di Sant’Oronzo. L’autore tace purtroppo i nomi di questi chierici. Essi erano senza dubbio noti ai lettori del suo tempo ma rimangono per noi oscuri. Viene indicato invece con precisione il luogo dove accadde il ritrovamento: è il santuario fuori le mura. Ovviamente non l’attuale, sorto agli albori del XX sec., bensì il vetusto tempio seicentesco di cui oggi non rimane più traccia. Le pagine del Di Giorgi raccontano come la scultura, che mostrava pesanti segni di trascuratezza, venne affidata alle suore della carità del convento degli Angiolilli, l’odierno Palazzo Carafa. A quel tempo, le religiose erano maestre nel confezionare degli autentici capolavori come i paramenti sacri che conferivano tanta maestà e splendore ai riti liturgici. Queste monache dunque restaurarono il manufatto, lo adornarono con una corona di fiori in seta e fecero realizzare un’apposita teca in cui poterlo custodire. Ultimati tali interventi, si decise di condurre il santo capo in cattedrale con una solenne processione. Era il 17 maggio 1846. La teca, tra il chiarore delle candele accese, avanzava per le vie cittadine portata a spalla dai sacerdoti. La folla del popolo, con i nobili locali ed il sindaco del tempo, Pasquale Personè, procedeva in preghiera. Il vescovo, mons. Nicola Caputo, volle predicare personalmente ai fedeli convenuti. A leggere la cronaca del Di Giorgi, si trattò di un evento religioso davvero straordinario.

Due elementi tuttavia colpiscono tra le affermazioni dell’autore. Il primo è la certezza di trovarsi davanti ad un reperto molto antico. Il Di Giorgi non si sbilancia in una datazione ma si dice pur convinto che l’immagine della testa del martire abbia un’età più che secolare e che sia stata, almeno in passato, fervidamente venerata dagli antenati del popolo leccese, prima di scivolare nell’oblio. A sostegno di questa tesi non viene addotto altro argomento se non quello del luogo della scoperta. Cosa però del tutto insufficiente per fare luce sull’origine della scultura. Non è da escludere quindi l’idea che si esageri di proposito sul tema dell’antichità per conferire maggiore autorevolezza alla devozione. In ogni caso, è bene ricordare come un culto del santo capo è attestato nel XVIII sec. Ma c’è un secondo elemento degno di esser messo in risalto. Fin dal principio dello scritto si dichiara che il simulacro è ciò che «le antiche memorie a ragione tramandano come il più fedele ritratto del nostro protettore». Un asserto che lascia, francamente, interdetti ma che cercheremo di valutare e comprendere nella prossima puntata.              

                                                                                                                                         

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