#DONORONZO70. Mons. De Simone, ‘homo orans’: il ‘cerimoniere’ divenuto ‘preghiera’

#DONORONZO70. Mons. De Simone, ‘homo orans’: il ‘cerimoniere’ divenuto ‘preghiera’

articolo ripreso da portalecce

Portalecce pubblica in questi giorni alcune testimonianze su mons. Oronzo De Simone che ieri 19 ottobre ha compiuto settant’anni di sacerdozio. Domenica prossima 23 ottobre alle 9,30 l’arcivescovo Michele Seccia presiederà una solenne eucarestia a Lecce nella chiesa di San Giuseppe per festeggiare l’anniversario di don Oronzo e per ringraziarlo al termine del servizio ministeriale svolto fin dal 1964 nella rettoria a due passi da Piazza Sant’Oronzo.

 

 

 

Don Oronzo era famigliare nel seminario di Lecce. Vi giungeva puntualmente ogni giovedì, in tarda mattinata: ogni settimana, difatti, in quel giorno si interrompevano le abituali lezioni scolastiche e le si sostituiva con lezioni di liturgia («sacre cerimonie», a dire il vero) e di canto (gregoriano).

Il maestro di queste ultime era il rettore, mons. Giuseppe Renna; delle prime, invece, era don Oronzo De Simone. Il suo libro di riferimento era la più recente edizione delle Sacre Cerimonie (1957) di Giuseppe Baldeschi: egli lo leggeva nelle pagine per noi «ministranti» nelle ufficiali cerimonie della cattedrale e le spiegava con competenza e passione. Nel Capitolo Cattedrale egli era il secondo cerimoniere (cerimoniere vescovile era don Raffaele Barletta) e per questo tornava in seminario per le prove ufficiali delle varie liturgie. Con noi era sempre paziente, ma quanto alle genuflessioni era esigente al massimo: al battito della sua mano, dovevamo, tutti insieme, stando diritti piegare il ginocchio destro sino a terra! Era buono, don Oronzo, e tutti gli volevamo bene.

Pian piano, però, chi ha proseguito nella preparazione all’ordine sacro ed è poi divenuto sacerdote ha scoperto un altro don Oronzo: quello della preghiera e del ministero della confessione. Le cerimonie sacre non erano per lui lo scopo, ma il mezzo; il rivestimento esterno di una realtà ben più intima, ossia l’unione con Dio. Qualcosa di non momentaneo, ma stabile; una postura – quella del suo atteggiamento sempre riservato e modesto – da cui traspariva un modo di essere ben più profondo. Uno stile, per dirla in breve.

Ne Lo spirito della liturgia Romano Guardini scrive che questa parola – stile – designa una figura nella quale il singolare passa in seconda linea e lascia emergere l’universale; dove ciò che è contingente e condizionato è respinto sullo sfondo di ciò che è necessario. Così in don Oronzo le «sacre cerimonie» passavano in secondo piano per lasciare emergere l’homo orans, l’uomo che prega, l’uomo che incessantemente si sente chiamato da Dio alla preghiera, ossia all’incontro con Lui e per questo, nella sua risposta, egli stesso chiama incessantemente Dio. Ed è così che la preghiera diventa appello reciproco, di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio. Diventa, per questo, evento di alleanza (cf. CCC 2567).

A questo «cerimoniere» divenuto «preghiera», quale augurio si farà per i settant’anni dall’ordinazione sacerdotale? Senz’altro e soprattutto quello della preghiera. Ed anche l’impegno a imparare la sua lezione, soprattutto noi sacerdoti.

L’arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini – oggi San Paolo VI – così concluse l’omelia della Messa Crismale del 1958: «Quanto più, perciò, cresceremo nella capacità di renderci a lui disponibili – di tacere, di adorare, di pregare, di meditare, di arrenderci alle sue ispirazioni, di fare la sua volontà, di portare la sua croce – e tanto più la sua pienezza ci invaderà, ci trasformerà, ci santificherà. Impegno mistico, il più vero, il più forte».

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