Un’umanità ferita – La chiesa di Borgo San Nicola

Un’umanità ferita – La chiesa di Borgo San Nicola

A colloquio con Don Sandro D’Elia da pochi mesi Cappellano della Casa Circondariale di Lecce.

 

OLTRE I COMPITI SPIRITUALI

Ciò che è più importante – a mio avviso – è permettere ai detenuti di sentirsi persone, ovvero poter parlare con qualcuno guardandosi negli occhi, lasciandosi scavare dentro la propria anima senza sentirsi giudicati o condannati.

Troppo spesso si guarda al carcere come un problema che il singolo detenuto deve affrontare per ripagare un errore compiuto e ci si dimentica che si tratta di una questione sociale. Guardiamo a quel cancello senza curarci di chi è ristretto al suo interno, quasi dimenticando che si tratta di uomini e di donne o, più semplicemente, di vite che hanno il diritto di essere vissute con dignità. A sorreggerli in questo duro percorso don Alessandro D’Elia, cappellano della Casa Circondariale Borgo San Nicola. 

 

Quando ha avuto inizio la sua esperienza come cappellano della casa circondariale Borgo San Nicola?

Ho iniziato la mia esperienza nel carcere di Lecce il 4 marzo 2012. Il Vescovo mi ha presentato alla comunità detenuta, al direttore e al comandante in occasione della giornata del carcerato. In realtà la prima volta che sono entrato in carcere è avvenuto nel mese di gennaio: due ragazzi della mia parrocchia erano stati arrestati  e avevano chiesto di parlare con me, loro amico e padre spirituale.

Così, appena entrato nel grande atrio da dove potevo osservare le celle e i volti nascosti come ombre dei detenuti, ho capito che il Signore non mi chiedeva solo di visitare i ragazzi della mia comunità ma di mettermi a completo servizio di tutte le persone recluse in quella enorme struttura. E così è stato. Non smetterò di ringraziare il Vescovo per avermi dato un dono così importante per la mia vita di uomo e di Sacerdote.

Per i più, la presenza del cappellano in un istituto carcerario ha una connotazione strettamente religiosa, quasi esclusivamente legata all’annuncio di Cristo. In realtà una simile visione, oltre ad essere riduttiva, è lontana da una ben più complessa responsabilità che abbraccia la dimensione cristiana, umana e psicologica insieme. Qual è la funzione del cappellano di una Casa Circondariale?

Il compito del cappellano è fondamentalmente spirituale e religioso. Al cappellano viene chiesta l’assistenza religiosa, la celebrazione delle Messe, le confessioni, l’ascolto dei detenuti. Questo compito però è solo un piccolo contributo che il cappellano può offrire a chi vive in carcere.

Ciò che è più importante – a mio avviso – è permettere ai detenuti di sentirsi persone, ovvero poter parlare con qualcuno guardandosi negli occhi, lasciandosi scavare dentro la propria anima senza sentirsi giudicati o condannati, vivere un rapporto umano con quella libertà interiore che supera i simboli mortificanti delle manette ai polsi, delle celle che si chiudono alle proprie spalle, del suono gelido dei chiavistelli che scandiscono il tempo interminabile della vita di un carcere, del sentirsi chiamati per cognome o etichettati come il detenuto del blocco x, della sezione y, della cella z.

Ciò che è a me sembra molto interessante quando dialogo con un detenuto e mi pongo in un rapporto di assoluta parità è percepire la vicinanza di quella persona alla mia persona. In qualche modo di realizza il comandamento nuovo di Gesù: “Amatevi gli uni gli altri”.

Come viene vissuta la fede in carcere?

Confesso che il tempo che trascorro all’interno del carcere ha un valore ambiguo e alquanto bizzarro per chi concepisce il tempo come una sequenza di secondi, minuti e ore. Per me il tempo che vivo nel carcere è sempre poco; per chi mi osserva e sa che oltre ad essere cappellano del carcere sono anche insegnante di teologia e parroco, il tempo che trascorro è eccessivo. Sono convinto piuttosto che quando arrivo in ritardo a qualche impegno pastorale pochi comprendono che solo qualche minuto prima avevo convinto qualcuno a non togliersi la vita…

Quando si entra in un carcere è come immergersi in  un’umanità ferita, è come incontrare ogni giorno l’essenza della vita perché quanto più si ha che fare con persone che hanno perso la libertà e gli affetti tanto più ci si accorge di quanto sia bello vivere liberi e senza pesi sulla coscienza. In questo senso il Sacerdote nel carcere ha il meraviglioso compito di risvegliare la fede attraverso la presenza discreta e generosa, la celebrazione della Messa e l’ascolto dei peccati, ma anche l’aiuto personale che si realizza nel donare prodotti di igiene intima, vestiario, biancheria e, ogni tanto – molto raramente – una sigaretta.

Ha in mente nuovi progetti al fine di migliorare la permanenza dei detenuti?

Non è facile mettere in piedi progetti all’interno del carcere perché ci sono percorsi burocratici che, molto spesso, ne impediscono la realizzazione. Parole come “sicurezza” o “divieti d’incontro” sono termini che non conoscevo ma con cui ora devo fare i conti  ogniqualvolta propongo idee. In realtà alcuni progetti li abbiamo già realizzati: un gruppo di detenuti dell’alta sicurezza anima le Messe con i canti liturgici; nel mese di giugno quindici detenuti hanno ricevuto il Sacramento della Cresima; ogni settimana circa ottanta detenuti partecipano ad un corso di catechesi biblica. Vorrei iniziare un corso per insegnare ai detenuti uno strumento musicale, un corso di lettura di testi particolarmente adatti alla loro condizione esistenziale. 

Il giorno dell’Epifania, il dramma che ha coinvolto Borgo San Nicola ha riacceso i riflettori su quel gesto che sembra essere l’unica via di fuga praticabile per chi, in silenzio, soffre dietro quelle mura: il suicidio.

Chi, come me, svolge il delicato compito di cappellano di un carcere di massima sicurezza, deve mettere in preventivo la possibilità che tra le centinaia di persone detenute molti riescano ad individuare dentro se stessi le ragioni per guardare al futuro con una certa fiducia e ottimismo, qualcuno invece non ce la fa e…decide di smettere di lottare come è accaduto domenica scorsa.

Un ragazzo somalo, detenuto all’interno del blocco “infermeria”, ha deciso di porre la parola fine alla sua triste vicenda. Nessuno saprà mai il motivo e a me non rimane che chiedere scusa se io, il Sacerdote del carcere, non sono riuscito ad accorgermi di lui, della sua sofferenza e della sua solitudine. Addio fratello somalo. Te ne sei andato con i tuoi misteri e ci hai lasciato tra mille “perché”. Lassù, in Cielo, tutto sarà svelato…anche il mistero del tuo gesto.

ANCHE A CAPODANNO UN PENSIERO PER LORO

Una preghiera particolare, quella di Mons. Domenico D’Ambrosio, è perennemente rivolta ai domiciliati di Borgo San Nicola. Il 4 luglio 2009, data del suo insediamento nella Diocesi di Lecce, Mons. D’Ambrosio incontrò chi tra quelle sbarre è costretto a viverci ogni giorno, chi per scontare una pena chi per dovere lavorativo. Gli oltre 1300 uomini “stipati” in una struttura che potrebbe contenerne meno della metà è rimasta ben impressa agli occhi del presule leccese che più volte, nel corso degli anni, è tornato ad esprimere la sua vicinanza ai detenuti.

“Non può essere un sistema riabilitante ciò che invece abbrutisce. Così come è messo, Borgo San Nicola svilisce la dignità dell’uomo. Il cristiano, crede ad un Amore che non conosce distinzioni di sorta, non può non far sentire il proprio dissenso”. Questo è il concetto che molto spesso ritorna nelle omelie di Mons. D’ambrosio, come durante l’ultima edizione della festa di Sant’Oronzo, una festa volutamente sobria per non ignorare i segni della crisi, la povertà e la sofferenza di molti.

 

In questa occasione, al termine della Solenne processione dei Santi Patroni per le vie di Lecce, ancora una volta l’Arcivescovo volle dedicare un suo pensiero ai detenuti: “Cari amici, al di là delle sbarre: in questo giorno di festa siete con noi, nei nostri pensieri, nelle nostre preghiere, nel mio affetto. Ne siete tanti, troppi per la struttura che vi ospita”.

Ed infine, lo scorso 31 dicembre, durante la 45edizione della Marcia della Pace Mons. D’Ambrosio non ha mancato il suo appuntamento con i reclusi, cui è stato devoluto il corrispettivo della cena saltata dai fedeli: “Questa sera, in questo nostro camminare per la pace vogliamo privilegiare un aspetto di questa pace esteriore con il prossimo che ha i volti e i nomi dei 1300 fratelli e sorelle detenuti nella Casa Circondariale di Borgo San Nicola qui a Lecce. Sono stato a trovarli e a pregare con loro e per loro, la sera della Vigilia e la mattina del Natale: volti tirati, visi sofferti e tristi, domande e attese inevase”.

Il Consiglio d’Europa condanna l’Italia per il sovraffollamento delle carceri. Secondo i dati aggiornati al 31 dicembre scorso, nei 206 istituti di pena del Paese vivono oltre 65mila persone, a fronte di una capienza regolamentare di 47.040 unità.

 

Una situazione divenuta oramai insostenibile per cui, lo scorso martedì a Strasburgo, la Corte per i Diritti Umani ha sentenziato per l’Italia il tempo massimo di un anno per decidere misure di compensazione per quei cittadini “vittime del sovraffollamento nelle prigioni italiane”.

Serena Carbone

 

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