UN’ECONOMIA PER L’UOMO E PER LA SOCIETA’
Cardinale Angelo Bagnasco
Arcivescovo di Genova
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana
Sono lieto di poter offrire alcune considerazioni in questa prestigiosa Università e ringrazio gli organizzatori per l’invito, mentre porgo a tutti il mio cordiale saluto.
Mi è stato chiesto di parlare dell’economia in rapporto all’uomo, e questa è la prospettiva corretta perché ogni attività nasce dall’uomo e a lui deve tornare. E, inoltre, è la prospettiva che compete maggiormente al mio compito di Vescovo.
1. Fenomenologia della situazione
Nel suo significato etimologico, economia deriva dal greco: oicòs, casa e nemein, amministrare. Significa dunque “amministrazione della casa”. Possiamo dire in generale, che è la scienza che si occupa della produzione ed amministrazione dei beni materiali. Anche se in quanto scienza vera e propria si è sviluppata solo in epoca moderna, già Platone e Aristotele se ne occuparono. In seguito, lo stesso San Tommaso d’Aquino, nel XIII secolo, ne parla trattando della giustizia contrattuale. E’ noto, comunque, che l’inizio ufficiale si fa risalire al 1776 con l’opera di Adam Smith, “Ricerca sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni”. Da quando poi, dopo la seconda metà dell’Ottocento, è esplosa la “questione sociale”, la Chiesa non ha mai cessato di intervenire in modo sistematico nelle questioni sociali attraverso gli scritti dei Papi a partire da Leone XIII con l’enciclica “Rerum Novarum”, fino a Benedetto XVI con l’ultima enciclica “Caritas in veritate”.
Ormai, anche per la globalizzazione e la grave crisi economico finanziaria che ha sconvolto il mondo, è chiaro a tutti un paradosso di cui poco si parlava anche se era già noto. Il mondo occidentale era troppo preso nella sua corsa verso uno sviluppo che si riteneva infinito, forse ancora illuso che quando “la marea avanza tutte le barche si alzano”, le barche dei poveri e diseredati del mondo. O forse impaurito da una realtà che cresceva ridente e minacciosa, quella del progresso invasivo e dominatore da una parte, e della planetaria disparità sociale, per cui popolazioni e Stati cercavano di sopravvivere. Forse alcuni avvertivano la montante percezione di impotenza davanti alla forbice crescente tra ricchi e poveri, potenti e deboli. Fino a quando la forbice ha cominciato a colpire anche i Paesi occidentali, e qualcosa è cominciato a scricchiolare, anzi a rovinare nella vita ordinaria delle Nazioni economicamente avanzate, e fasce fino a ieri benestanti si sono trovate in difficoltà, mentre altre sono finite sotto il livello minimo. Un brivido ha scosso allora il mondo, un brusco risveglio quasi per tutti, uno shock inatteso che ha provocato, nelle coscienze oneste, la domanda: “che cosa è successo? perché? che cosa abbiamo sbagliato?”. La conoscenza progressiva della natura e la possibilità di guidarne gli sviluppi, ha conseguenze positive come la soddisfazione di bisogni reali, la stimolazione delle capacità umane: ha fatto crescere, inoltre, le relazioni e gli scambi tra cittadini, gruppi e popoli. Ma ha indotto anche ad una mentalità sbagliata, economicistica, che ha avvelenato Paesi diversi per storia, situazione e cultura. Basta un accenno al lusso che non si vergogna davanti alla miseria più tragica, o a certe concentrazioni di potere nelle mani di pochi a fronte di masse che mancano quasi totalmente della possibilità di decidere e di agire con responsabilità propria. La cupidigia, facilitata e sollecitata da meccanismi finanziari e speculativi internazionali, ha creato voragini e illusioni, ha avvelenato il modo di pensare e di fare non solo di singoli ma anche di economie e Nazioni; ha spinto in un vortice virtuale che non poteva e non doveva durare. Questa situazione – evocata in termini generali e quindi incompleti – non corrisponde al disegno di Dio: siamo di fronte ad una realtà fatta di luci splendide e di ombre gravi e ampie. E’ necessario che le luci, opportunamente verificate e migliorate, possano illuminare veramente tutti – uomini e popoli – perché le disparità evidenti e inaccettabili che vi sono siano ridotte e, possibilmente, eliminate.
Questo scenario – seppure con tonalità e contesti diversi – era già presente nella grande Assise conciliare del Vaticano II, quando i Vescovi del mondo, attorno al Papa, hanno fotografato l’umanità e l’hanno guardata con gli occhi e il cuore dello Spirito. Torno a ripetere che la realtà non è nuova ma che ora, a seguito della crisi economica-finanziaria, è apparsa inedita, tale da imporsi all’attenzione collettiva così che nessuno può far finta di non sapere.
2. Alcuni modelli economici
Prima di affrontare alcuni principi e orientamenti che sono sistematizzati nel Corpus della Dottrina Sociale della Chiesa, potremmo dire che i modelli teoretici ai quali in genere si fa riferimento sono quelli liberista, keynesiamo (John Maynard Keynes, “La teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” 1936), e marxista. Il fallimento di quest’ultimo è di tutta evidenza, e, come ha scritto il beato Giovanni Paolo II grazie anche alla sua conoscenza diretta, il muro di Berlino nel 1989 è caduto non solo perché il sistema economico era inefficiente, ma anche e in primo luogo per la sistematica “violazione dei diritti all’iniziativa, alla proprietà e alla libertà nel settore dell’economia” (Giovanni Paolo II, Centesimu annus, n. 24). E’ dunque la concezione antropologica la causa più profonda del crollo del marxismo come di ogni regime totalitario, sia a livello politico che sociale ed economico. L’uomo non vive solo di economia, ma si comprende “in modo più esauriente se viene inquadrato nella sfera della cultura attraverso il linguaggio, la storia e le posizioni che egli assume davanti agli eventi fondamentali dell’esistenza, come il nascere, l’amare, il lavorare, il morire. Al centro di ogni cultura sta l’atteggiamento che l’uomo assume davanti al mistero più grande: il mistero di Dio” (ib).
Gli altri due modelli, invece, si sono nella storia vicendevolmente contaminati, senza forse trovare ancor oggi una sintesi soddisfacente e sicura. E’ necessario equilibrare, infatti, fattori diversi e dinamici, come il diritto di proprietà, il meccanismo dei prezzi, il mercato, la libera iniziativa, il territorio che conosce meglio dell’Autorità centrale le risorse e le esigenze, ma anche la presenza attenta e lungimirante dello Stato per le verifiche necessarie, il quadro generale del Paese, il bene comune.
Ma alla base di ogni sistema economico, come di ogni forma di politica e di società, vi è sempre un’opzione di fondo: quella stessa che ha minato l’economia dei Paesi totalitari di oltre cortina. E’ il materialismo. Se al cuore di quella cultura il materialismo era teorico, cioè riflesso e programmato, è da ricordare che esiste anche un materialismo pratico il quale, in virtù di un certo modo di valutare i beni materiali, condiziona l’affronto delle questioni personali e sociali. E questo può insidiare come un tarlo invisibile ma efficace ogni prassi, anche se, a prima vista, potrebbe sembrare che non ci sia relazione. In questa prospettiva materialista – fuori cioè da una concezione antropologica relazionale e trascendente – l’economia, a qualunque modello appartenga, diventa “economismo”, cioè fine a se stessa e non in funzione del valore più alto che è la persona. Prima o dopo implode.
3. Centralità della questione antropologica
Siamo così arrivati alla questione centrale, quella etica. Centrale perché, essendo l’economia un’attività umana, ed essendo l’uomo un soggetto morale, ogni sua azione ha a che fare con la dimensione etica, cioè è morale o immorale. Diciamo subito che è morale tutto ciò che costruisce la persona ed è immorale ciò che le va contro. Ma s’impone un’ ulteriore precisazione, e cioè che ciò che costruisce un uomo non necessariamente corrisponde a ciò che gli piace o gli conviene in termini utilitaristici; gli fa bene solamente tutto ciò che è in linea con ciò che è, con la sua verità di soggetto intelligente e responsabile, aperto agli altri. La cultura contemporanea pervasiva in mille rivoli è di matrice individualista, e ha sposato la visione propria di un certo radicalismo che vede nell’uomo un soggetto fine a se stesso, che si concepisce come unica norma del suo agire. Sembra una concezione che promuove la libertà individuale ed emancipa l’uomo da regole o leggi esterne, come a dire che qualunque eteronomia umilia di per sé e uccide l’autonomia soggettiva. In realtà, non libera affatto l’uomo ma lo condanna alla solitudine con se stesso. In questa visione, il criterio dell’agire morale viene ad essere esclusivamente il soggetto, e l’azione risulterebbe morale – cioè buona, cioè costruttiva della persona – non in quanto è conforme a dei valori più alti, ma in quanto è il risultato di una libera scelta. L’etica sarebbe dunque l’etica della scelta non l’etica dei valori. La prima è appiattita sul piano soggettivo, mentre la seconda, a partire dalla libertà da coazione come requisito previo della responsabilità morale, si misura con i valori oggettivi che danno contenuto e sostanza alla mia libertà.
La visione antropologica e quindi etica che ha dato forma all’umanesimo europeo, è quella personalista e comunitaria, vale a dire l’uomo è sì un individuo – anche una pietra o un albero sono individui – ma è un individuo personale; e questo non è un attributo pleonastico, ma lo differenzia dal resto del mondo. Infatti l’uomo non è riducibile ad un grumo di materia, supera se stesso, la propria materialità, ad esempio grazie alla conoscenza che gli permette di vivere in faccia all’universo intero. Come scrive San Tommaso, gli permette di diventare, sul piano logico, tutto ciò che conosce. Ma la sua irriducibilità alla materia si rende visibile anche nell’esperienza dell’amore, della fedeltà che è, come affermava G. Marcel, una “cifra” di Dio stesso perché avvicina l’uomo all’eternità, cioè al per sempre. Ciò che di più profondo è l’uomo si rivela, potremmo dire si tocca, anche nel vedere che siamo capaci di vivere come un dono, uscendo cioè da noi stessi, dal nostro perimetro, per andare incontro ed accogliere l’altro mettendoci radicalmente in gioco. Tutto questo, ed altro ancora, ci attesta che l’uomo non può essere costretto al tempo e alla materia, ma è un paradosso posto su una zona di confine, fra terra e cielo, fra tempo ed eternità, tra finito e infinito, fra il nulla e il tutto. Qualunque studio o attività facciamo, non dobbiamo mai perdere di vista noi stessi, sapere ciò che siamo di piccolo e di grande, sentirci attraversati dalla sorpresa, quasi feriti dallo sgomento. Pascal scriveva in modo incisivo: “Che cos’è l’uomo nella natura? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla (…) L’uomo è una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa” (Pascal, Pensieri, nn. 223, 377). La persona, dunque, è un soggetto con alta densità relazionale, ed è vivendo il suo essere relazione che realizza se stesso. > Ma relazione con chi? Con le cose materiali certamente, ma anche con gli altri per condividere e camminare insieme, per trovare quel completamento che, prima di essere funzionale (cioè necessario alla vita pratica) è di ordine spirituale e morale. Ma ciò non basta ancora, l’uomo ha bisogno di vivere in relazione con l’Assoluto, con la Trascendenza, con Dio: “Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 78). Il problema del fondamento di tutto ciò che esiste è ineludibile sul piano non solo teoretico, ma anche pratico: ciò che è fragile e relativo rimanda ad un fondamento assoluto che lo precede e lo giustifica nell’esserci, ma che anche dona direzione e senso. L’universo stesso, attraverso la coscienza umana, chiede di essere salvato dall’assurdo, dal nulla di significato. Tutto, uomini e cose, hanno bisogno di futuro, perché il presente è troppo stretto, e l’universo è troppo poco. Vivendo il suo essere relazione aperta, intelligente e umile, l’uomo vive anche vicino a se stesso, non estraneo al suo cuore. All’interno di questo orizzonte metafisico ed etico si colloca ogni attività umana; ma innanzitutto si comprende che veramente “la persona è ciò che di più nobile c’è in tutto l’universo” (San Tommaso, S.T., q. 29 a.3), e non è “un’ignobile marmellata” come affermava Sartre (cfr La nausea), o “un volto sulla sabbia” come sosteneva Foucault.
Per queste ragioni l’uomo e il suo vero bene hanno un primato anche nell’attività economica come, più ampiamente, nell’organizzazione sociale e nella vita politica: “il primo capitale da salvaguardare e valorizzare – scrive Benedetto XVI – è l’uomo, la persona, nella sua integrità (…) Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad ‘essere di più’ (…) Se l’uomo fosse solo frutto o del caso o della necessità, oppure se dovesse ridurre le sue aspirazioni all’orizzonte ristretto delle situazioni in cui vive, se tutto fosse solo storia e cultura, e l’uomo non avesse una natura destinata a trascendersi in una vita soprannaturale, si potrebbe parlare di incremento o di evoluzione, ma non di sviluppo (…) la questione sociale è diventata questione radicalmente antropologica” (Benedetto XVI, Enc .cit. n.25, 29,75). La questione antropologica ci pone di fronte a quell’insieme di valori fondativi e irrinunciabili che costituiscono la cosiddetta “etica della vita” e che sono la vita dal concepimento fino al tramonto naturale, la famiglia formata da un uomo e una donna fondata sul matrimonio, la libertà di religione e di educazione. Tale complesso valoriale è come una radice che non può essere tagliata senza uccidere l’albero, e per questo non si possono negoziare. Nello stesso tempo, sono un ceppo sempre vivo che germoglia quei valori che costituiscono l’etica sociale nei suoi diversi aspetti.
4. Alcune applicazioni
Dopo aver accennato alla situazione economica e culturale nella quale versiamo, e aver ricordato la centralità dell’uomo secondo una visione personalista e comunitaria nella quale la dimensione etica è costitutiva, cerchiamo ora di concludere con alcune applicazioni più puntuali in riferimento al tema dell’economia.
A) La funzione sociale della proprietà, cioè la destinazione universale dei beni della terra. Nell’ottica cristiana, ma penso anche in un’ottica strettamente razionale, i beni del creato, prima che essere partecipati ai singoli secondo il principio-diritto della proprietà privata, hanno una destinazione universale. Questa prospettiva non è di ordine statico, ma è estremamente dinamica perché deve informare storicamente sia l’uso personale dei beni – evitando gli eccessi, le esibizioni e le chiusure – sia l’attività dello sviluppo e dell’economia. Se il principio della proprietà privata è fondato ed è sorgente di cura, iniziativa e libertà, la mentalità esclusivista è un’altra cosa: se il primo fa bene al singolo e alla società, la seconda non fa bene né all’uno né all’altra, non costruisce la persona nella linea della relazione e del dono, ed è miope e dannosa per la collettività intera. Non possiamo dimenticare che se la persona non può mai essere strumento o mezzo per la società, è anche vero che la persona non si realizza senza gli altri in una rete armonica; e come il bene personale – se autentico – si riversa sugli altri, il bene della società – anche quello economico – si riflette sui singoli.
B) Dai principi sopra richiamati, si ricava la necessaria partecipazione alla vita economica. Naturalmente si tratta di individuare le forme corrette, quelle che rispettino i compiti di ciascun soggetto attore dell’impresa, e che, insieme, salvaguardino la doverosa unità d’indirizzo dell’economia e delle singole imprese. E’ evidente che le responsabilità sono diverse per ruoli e livelli, ma è necessario che ognuno possa in qualche misura avere una visione d’insieme della realtà economica, produttiva e finanziaria, per poter maturare la percezione che il proprio particolare si muove in modo virtuoso in un progetto d’insieme che chiamiamo “bene comune”. Ciò corrisponde alla natura relazionale e partecipativa della persona, ma emerge in forma ancora più chiara nei momenti di difficoltà generale, quando è richiesto a tutti un supplemento di intrapresa, coraggio, onestà, Sacrificio.
C) Il valore della politica. Parlare dell’importanza della politica non significa, chiaramente, inibire l’iniziativa personale o dei corpi intermedi, ma affermare la necessità di una visione d’insieme. Senza un orizzonte ragionevole e onesto, non solo si va incontro al disordine economico e finanziario, ma non si aiuta neppure l’intrapresa. Il bene comune, scopo della politica, non è la somma dei beni individuali, ma l’insieme delle condizioni perché ognuno, singoli, famiglie e gruppi, possano realizzare se stessi secondo verità e vocazione. Ciò richiede visione della vita sociale che, anche in economia, chiede un rapporto virtuoso tra principi e valori. I valori sono il rilievo che i principi hanno nella stima generale. Emerge così l’importanza del compito educativo: i principi, infatti, hanno bisogno di essere non solo conosciuti da tutti, ma altresì int eriorizzati e devono riscuotere apprezzamento, importanza, valore appunto. Questo è il compito educativo della famiglia e della scuola, ma non solo: è tutta la società che deve diventare educante, cioè testimoniare la bellezza e la coerenza dei principi che presiedono la vita sociale e che compongono il bene comune. Ma quali sono questi principi e valori? La verità, la libertà, la giustizia e l’amore. Già abbiamo parlato della verità dell’uomo come persona, della sua libertà e della sua dignità irriducibile, al cui servizio è ogni manifestazione della vita sociale, quindi anche l’economia e la finanza. Diciamo ora una parola sulla giustizia che, com’è noto, si distingue in verità distributiva, legale e commutativa. Nella prima è lo Stato che deve provvedere a ciò che spetta ai cittadini, altrimenti è ingiusto; nella seconda, le parti si invertono; mentre nella terza sono i cittadini che devono riconoscere vicendevolmente quanto è proprio di ciascuno. Comprendiamo che l’apprezzamento di questi principi richiede una paideia e un tirocinio che chiamano in causa non solo maestri ma anche testimoni.
Dopo la questione sociale a metà dell’ottocento con al centro la questione operaia, si è ampliata la questione investendo i popoli e gli stati del mondo: “ Si considera, perciò, non solo l’ambito della classe – scrive Giovanni paolo II – ma quello mondiale delle diseguaglianze e delle ingiustizie” (Giovanni paolo II, Laborem Exercens, n. 2). E Benedetto XVI, parlando del mercato e delle diverse forme di giustizia, mette in evidenza che la Chiesa da molto parla dell’importanza della “giustizia sociale” (cfr Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 35) che concerne gli aspetti sociali, politici ed economici dei problemi e delle correlative correzioni. In se stessa, la giustizia sociale non solo esige le forme di giustizia evocate, ma aggiunge la dimensione nuova dell’amore: infatti, “Il mercato, lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione Buy Cialis Online No Prescription sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica, Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave” (ib). Nella visione della Chiesa, la giustizia, da sola, non è sufficiente. E’ necessario, per non implodere, che si apra alla forza dell’amore.
D) Siamo così condotti ad una quarta applicazione: la sussidiarietà.
Secondo tale principio “una società di ordine superiore non deve interferire in una società di ordine inferiore (…) ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune” (Giovanni paolo II, Centesimus annus, 48). Il principio valorizza dunque l’azione dei singoli e delle aggregazioni intermedie in campo economico e si applica sia nel modello liberista che keynesiano, dato che entrambi sono basati sull’economia di mercato e sul ruolo dei prezzi. La sussidiarietà deve mantenere stretto e reciproco il suo legame con il principio della solidarietà altrimenti facilmente cade nel particolarismo sociale, così come la solidarietà può trasformarsi in assistenzialismo che umilia coloro che sono in difficoltà (cfr Benedetto XVI, Caritas in veritate, 58). Un sistema economico-sociale equilibrato promuove la compresenza di pubblico e privato, inclusa l’azione del non profit, così che si configuri una pluralità di centri decisionali e di dinamiche operative che si completano e si bilanciano in vista del bene di tutti.
E) Il principio di economicità e il libero mercato.
Una delle questioni principali in economia è l’impiego delle risorse, cioè dei beni e dei servizi. Tale principio richiama la necessità di razionalizzare al meglio le risorse che non solo certamente infinite, e tale dovere è proprio di tutti i soggetti, quali il mercato, lo Stato e i corpi sociali ma anche i singoli cittadini. Parlando di mercato bisogna affermare che esso ha una rilevanza socialmente importante per garantire beni e servizi al fine di rispondere ai bisogni, ma bisogna sempre valutare i fini che persegue e che trasmette a livello di mentalità generale. L’utile è uno scopo legittimo, ma se diventa fine a se stesso va contro l’uomo, per questa ragione non va mai separato dall’utilità sociale. Nel concetto di utilità sociale è sempre inclusa la valenza etica che attiene direttamente alla realizzazione della persona che non può mai essere ridotto a soddisfazione di beni materiali; egli infatti trascende verso beni che non sono e non possono essere merci.
Ritorna così il ruolo insostituibile della politica che ha la responsabilità imprescindibile di visione ideale ed etica – etica razionale – al fine di garantire non solamente il quadro giuridico più adeguato per orientare lo sviluppo e regolare i rapporti di tipo economico, ma innanzitutto di progetto di società che risponda a quell’umanesimo integrale e aperto alla Trascendenza e agli altri che ha fatto l’Europa. Grazie.