Guardare con gli occhi di Gesù

Guardare con gli occhi di Gesù

Prolusione di Mons. Piero Coda in occasione dell’Inaugurazione dell’Anno Accademico dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose di Lecce

GUARDARE CON GLI OCCHI DI GESU’

Per una lettura dellaLumen fidei”

 

Non è una semplice coincidenza che la prima enciclica di Papa Francesco porti la data del 29 giugno, festa degli apostoli Pietro e Paolo. Perché il ministero di Pietro, di cui il Vescovo di Roma raccoglie l’eredità congiungendola a di Paolo, l’apostolo delle genti, è quello di “confermare” i discepoli di Gesù nella fede. Mentre, dunque, volge al termine l’anno dedicato alla fede, si attendeva una parola forte e autorevole dal Papa.

E Papa Francesco, a tre mesi dalla sua elezione, l’ha voluta dire facendo suo il testo che, a grandi linee, già era stato preparato da Benedetto XVI. Offrendoci così un gesto di convinta e fraterna comunione: non solo con il suo immediato predecessore, ma, nella grazia e nella responsabilità della successione apostolica, con tutti coloro che si sono succeduti sulla cattedra del Vescovo di Roma nel suo servizio all’unità.

 Altrettanto significativo è il fatto che questa enciclica veda la luce, entro la cornice del cinquantesimo anniversario della celebrazione del Concilio Vaticano II, come un vademecum di approfondimento e verifica della nostra esperienza di fede, personale e comunitaria, nell’oggi della storia.

In essa ci è proposto infatti il focus decisivo da cui guardare alla nostra esistenza e missione di discepoli di Gesù: il “primato di Dio”. La fede, dunque, come radice e baricentro in Dio, nel Dio di Gesù, della nostra vita e testimonianza.

Quest’invito torna due volte nell’enciclica. Ricorre già nell’introduzione, al n. 6, dove si afferma:

«L’anno della fede ha avuto inizio nel 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Questa coincidenza ci consente di vedere che il Vaticano II è stato un Concilio sulla fede [in nota si cita Paolo VI], in quanto ci ha invitato a rimettere al centro della nostra vita ecclesiale e personale il primato di Dio in Cristo».

Questo richiamo sottolinea che lo slancio di rinnovamento ed evangelizzazione scaturito dal Concilio, e che oggi Papa Francesco ci ripropone con limpido spirito evangelico e con determinata e incrollabile tenacia, ha proprio qui, nel primato di Dio in Gesù vissuto a tutti i livelli, la sua unica sorgente.

La seconda ricorrenza di questo incalzante invito si trova al n. 19:

«La salvezza attraverso la fede consiste nel riconoscere il primato del dono di Dio, come riassume san Paolo: “Per grazia infatti siete stati salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio” (Ef 2,8)».

 Il primato di Dio ci è qui proposto come il riconoscimento, grato e fiducioso, del dono di Dio che è la fede quale principio che sempre rinnova la nostra “vita nuova” in Cristo, e perciò come il “la” che intona il canto della nostra esistenza e testimonianza.

Guidati da questa chiave di lettura cerchiamo di vedere, per qualche aspetto, che cosa in concreto la Lumen fidei ci dice sulla fede come esercizio bello, affascinante ed esigente del primato di Dio in Gesù per noi.

Dispongo la riflessione in quattro punti, due che toccano più da vicino la nostra vita personale, gli altri due lo stile comunitario del nostro essere Chiesa nel contesto sociale in cui siamo inseriti.

1. Cominciamo dal primo punto, in cui la Lumen fidei c’invita a scavare che cosa significa nella fede, per noi, “primato di Dio”.

Come filo conduttore o, meglio, come icona biblica di questo primo punto scelgo la frase tratta dalla prima lettera di Giovanni (4,16) che fa dà titolo al primo capitolo della Lumen fidei: «Noi abbiamo creduto all’amore». Questa frase risalta in tutta la sua pregnanza se la leggiamo nel contesto prossimo in cui è incastonata:

«In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati. (…) E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Gv 4,9-10.15-16).

Ecco una densa e luminosa illustrazione al tempo stesso del contenuto centrale (fides quae) e dell’atto fondamentale (fides qua) in cui la fede cristiana propriamente consiste. Così, ad esempio, la mette in rilievo Ceslas Spicq nel suo famoso studio Agapé dans le Nouveau Testament. Alla luce di questa pericope della 1Gv si possono mettere a tema due aspetti della nostra vita:

a) la fede è rapporto personale con Dio;

b) è Lui, Dio, che ci ha scelti e chiamati ad essa, per amore, e per sempre resta fedele a questa sua scelta e chiamata.

a) La fede, innanzi tutto, è rapporto personale con Dio. Il Papa lo illustra richiamando la figura di Abramo, «nostro padre nella fede» (n. 8). «La fede – dice – è la risposta a una Parola che interpella personalmente, a un Tu che ci chiama per nome» (ibid.).

Sembra scontato questo fatto senza il quale non si può parlare, vivere, testimoniare, annunciare la fede. Ma scontato non lo è. Soffermare l’attenzione su di esso c’invita a un profondo, sincero, sereno ed esigente esame di coscienza.

La qualità personale della nostra fede si misura – qui dobbiamo tornare sempre di nuovo – sulla verità e qualità del nostro affidamento a Dio e della nostra sequela di Gesù.

È qui la cartina al tornasole della nostra esistenza di discepolo di Gesù. Con Dio non si può barare, non si può far finta. Se la mia esistenza, per la fede, è messa in trasparenza con Dio, allora tutto acquista luce e sapore; in caso contrario, tutto è opaco e senza veri e duraturi frutti.

La Lumen fidei sottolinea in proposito un fatto importante, e di estrema attualità. La scelta stessa del titolo dell’enciclica rinvia alla fede come dono di luce, e cioè di verità e di senso dell’esistenza. Perché così – come luce che squarcia le tenebre e illumina la via – la fede cristiana è stata sperimentata agli albori dell’esperienza apostolica ed è stata descritta e trasmessa dai Padri della Chiesa. Paradossalmente, nella modernità la fede è invece diventata sinonimo di buio, di chiusura, di arretratezza.

La sfida – senz’altro provocante e impegnativa –, che oggi ci è rivolta, è di attestare, prima nella nostra esistenza e poi insieme con le nostre parole, che (cito la Lumen fidei):

«La fede in Dio illumina le più profonde radici del nostro essere, permettendoci di riconoscere la sorgente di bontà che è all’origine di tutte le cose, e di confermare che la nostra vita non procede dal nulla o dal caso, ma da una chiamata e da un amore personale» (n. 11).

 

b) Secondo aspetto: la fede nasce dalla scelta e dalla chiamata di Dio. «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi – afferma Gesù – e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16). Anche questo è fondamentale e imprime un sigillo indelebile sulla nostra esistenza e sul nostro stile di cristiani.

«Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» – dice anche a noi Gesù –, e per di più senza merito alcuno che possa motivare tale scelta.

Lo stupore, la gratitudine, il riconoscimento, la riconoscenza, per tutto ciò, non possono nascere da noi, per generazione spontanea. Non sono, in altre parole, atteggiamenti meramente soggettivi. Sono atti responsoriali e oggettivi: nascono come risposta. E cioè dal sentirsi e sapersi e volersi guardati dallo sguardo d’amore di Dio per me. È questo sguardo, intercettato, accolto, custodito, il grembo da cui nasce e si nutre e cresce e si fortifica la nostra chiamata e sequela di Gesù. Se non c’è questo, non c’è nulla. Perché non c’è Lui. Lui per e in noi.

L’adesione e l’esperienza della fede promettono infatti l’incontro sempre più vero e intimo con lo sguardo di Dio su di noi. Scrive poeticamente Giovanni della Croce nel Cantico spirituale:

«O fonte cristallina,

se in questi tuoi riflessi inargentati

formassi d’improvviso

gli occhi suoi desiderati,

che nel mio intimo io porto disegnati!» (Str. 12).

E spiega:

«È come (l’anima del fedele) se dicesse: O se queste verità, che informi e oscure, mi insegni, nascoste nei tuoi articoli di fede, finissi per mostrarmele, finalmente svelate, in modo chiaro e distinto come lo chiede il mio desiderio! E dice occhi queste verità, perché le fanno sentire così intensamente la presenza dell’Amato, da sembrarle che la stia sempre guardando».

Questo “incontro di sguardi”, che è tutto nella vita del cristiano, è nutrito dalla preghiera, respiro della nostra vita, e dall’ascolto e affidamento alla Parola, come dice Paolo ai presbiteri di Efeso: «vi affido alla Parola» (Atti 20,32). La Parola – scrive la Lumen fidei – «quando è pronunciata dal Dio fedele diventa quanto di più sicuro e di più incrollabile possa esistere… la roccia sicura sulla quale si può costruire su solide fondamenta» (n. 10).

Ascoltare, vivere la Parola, farsi vivere dalla Parola: è questa la via del discepolo, che non è chiamato, in primo luogo, a darsi da fare, come Marta, per le molte incombenze, ma a sedersi come Maria ai piedi del Maestro per ascoltare, interiorizzare, vivere le sue parole (cfr. Lc 10,41-42) . Come la madre di Gesù: «Conservabat omnia verba haec, conferens in corde suo» (Lc 2,19).

L’opposto della fede, come incontro e risposta allo sguardo di Dio in Gesù, è l’idolatria. La Lumen fidei scrive in proposito cose forti e puntuali. Le possiamo rileggere, perché dicono molto anche a noi:

«La fede per sua natura chiede di rinunciare al possesso immediato che la visione sembra offrire, è un invito ad aprirsi verso la fonte della luce, rispettando il mistero proprio di un Volto che intende rivelarsi in modo personale e a tempo opportuno. Martin Buber citava questa definizione dell’idolatria offerta dal rabbino di Kock: vi è idolatria “quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto”. Invece della fede in Dio si preferisce adorare l’idolo, il cui volto si può fissare, la cui origine è nota perché fatto da noi. Davanti all’idolo non si rischia la possibilità di una chiamata che faccia uscire dalle proprie sicurezze, perché gli idoli “hanno bocca e non parlano” (Sal 115,5). Capiamo allora che l’idolo è un pretesto per porre se stessi al centro della realtà, nell’adorazione dell’opera delle proprie mani. L’uomo, perso l’orientamento fondamentale che dà unità alla sua esistenza, si disperde nella molteplicità dei suoi desideri; negandosi ad attendere il tempo della promessa, si disintegra nei mille istanti della sua storia. Per questo l’idolatria è sempre politeismo, movimento senza meta da un signore all’altro. (…) La fede (…) è l’opposto dell’idolatria; è separazione dagli idoli per tornare al Dio vivente, mediante un incontro personale. Credere significa affidarsi a un amore misericordioso che sempre accoglie e perdona, che sostiene e orienta l’esistenza, che si mostra potente nella sua capacità di raddrizzare le storture della nostra storia. La fede consiste nella disponibilità a lasciarsi trasformare sempre di nuovo dalla chiamata di Dio» (n. 13).

Questa pagina c’invita a smascherare, con schiettezza e decisione, gli idoli, piccoli o grandi, talvolta rivestiti delle auto-giustificazioni apparentemente più plausibili, cui rischiamo di svendere per un piatto di lenticchie la nostra esistenza, che pure è stata illuminata dalla fede in Gesù.

Quest’esame di coscienza ci porta dritti dritti al cuore di tutto: col dono della fede, Dio viene a prendere nella nostra vita il posto che è il suo – il primo posto. Non per escludere gli altri, ma per disporli secondo l’ordine della verità e dell’amore.

2. Eccoci di qui al secondo momento di riflessione suggerito dalla Lumen fidei: che cosa significa che il primato di Dio, donato ed esigito nella fede, si realizza e si dispiega in Gesù?

La fede “di” Gesù. La Lumen fidei si sofferma con attenzione su questo lemma e sul messaggio che ha in serbo per noi. Ne declina il significato in due dimensioni, entrambi decisive.

La prima, più evidente, è che «la storia di Gesù – dice il Papa – è la manifestazione piena dell’affidabilità di Dio (…) il luogo dell’intervento definitivo di Dio, la suprema manifestazione del suo amore per noi» (n. 15): ecco, appunto il significato di 1Gv 4,16: «noi abbiamo creduto all’amore di Dio in Gesù».

In questa direzione l’enciclica fa una sottolineatura importante: è «nell’ora della croce il momento culminante dello sguardo di fede, perché in quell’ora risplende l’altezza e l’ampiezza dell’amore divino» (n. 16). È allora – come promesso nel quarto vangelo – che Gesù «attira tutti a sé» (cfr. Gv 12,32). Il nostro sguardo di fede è concentrato e rapito dallo sguardo del Crocifisso. È piantato lì, non si muove di lì, di lì trae la luce e la linfa della vita nuova.

Ed ecco le conseguenze – quando questo sguardo diventa, di più in più, la vita della nostra vita –: la vittoria sul sospetto, sulla mancanza di fiducia, sulla tentazione di lasciar andare e di lasciarsi andare, sulla paura di ri-guardare gli occhi di Gesù quando abbiamo sbagliato e peccato. Scrive il Papa:

«è proprio nella contemplazione della morte di Gesù che la fede si rafforza e riceve una luce sfolgorante, quando essa si rivela come fede nel suo amore incrollabile per noi, che è capace di entrare nella morte per salvarci. In questo amore, che non si è sottratto alla morte per manifestare quanto mi ama, è possibile credere; la sua totalità vince ogni sospetto e ci permette di affidarci pienamente a Cristo» (n. 16).

Ma c’è anche una seconda direzione nella quale il Papa invita a guardare. Il fatto è che la fede di Gesù – come scrive Paolo nella lettera ai Galati – è «la fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (2,20). La dedizione d’amore in cui egli ha dato la vita per me – dedizione sempre attuale, sempre viva, che tocca e risana in ogni momento la mia vita – è quella del Figlio che “carne” e “pane” si è fatto per me, in obbedienza d’amore al Padre nel soffio dello Spirito.

La fede in Dio, attraverso Gesù, consiste dunque, in una parola, nel «ricevere un nuovo essere, un essere filiale», nel «diventare figlio nel Figlio», così che «Abbà, Padre, è la parola più caratteristica dell’esperienza di Gesù, che diventa centro dell’esperienza cristiana (cfr. Rm 8,15)» (n. 19). Questo è la fede: la fede di Gesù diventa la mia fede.

Ma che cosa significa ciò, in concreto? La Lumen fidei richiama due aspetti.  

a) Innanzi tutto significa vivere in Gesù e di Gesù, conformarsi a lui, imparare non soltanto – da lui – le sue parole e i suoi gesti, ma imparare lui.  Antonio Rosmini la chiama «inoggettivazione in Gesù Cristo», che è – dice –

«la formula più breve della cristiana perfezione, e di qui viene l’espressione solenne: in Cristo. L’uomo cristiano dee (sic!) sentire, pensare, fare, e patire, avere, essere ogni cosa, in Cristo. Qui ritorna ancora il precetto dell’apostolo: Hoc sentite in vobis, quod et in Christo Jesu (Fil 2,5)»[1].

 San Giovanni della Croce penetra misticamente il segreto più fondo e coinvolgente di quest’identificazione con Gesù, di cui scrive l’apostolo Paolo nella lettera ai Galati: «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (2,20). Scrive:

«Quando c’è unione d’amore, la persona dell’Amato è tratteggiata e riprodotta così al vivo, che l’Amato s’identifica con l’Amante, così che con tutta verità si può dire che l’Amato viva nell’amante e l’amante nell’Amato.

E nella trasformazione degli amanti la somiglianza prodotta dall’amore è tale, che si può affermare che ciascuno è l’altro e tutti e due sono uno. La ragione è che, nell’unione e trasformazione d’amore, ognuno cede il possesso di sé all’altro, e ciascuno lascia se stesso e si dona e si scambia con l’altro. E così ognuno vive nell’altro, e l’uno è l’altro, e per trasformazione d’amore tutti e due sono uno solo» (Cantico spirituale, Str. 12, 7).

b) In concreto, ciò significa che «la fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i suoi occhi: è una partecipazione al suo modo di vedere» (n. 18). Infatti, spiega il Papa:

«Per permetterci di conoscerlo, accoglierlo e seguirlo, il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne, e così la sua visione del Padre è avvenuta anche in modo umano, attraverso un cammino e un percorso nel tempo. (…) La fede nel Figlio di Dio fatto uomo in Gesù di Nazaret non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo, di scoprire quanto Dio ama questo mondo e lo orienta incessantemente verso di Sé» (ibid.).

«La vita in Cristo – il suo modo di conoscere il Padre, di vivere in toto nella relazione con Lui – apre (dunque) uno spazio nuovo all’esperienza umana: e noi vi possiamo entrare» (ibid.). Il cristiano, a ben vedere, è colui che è chiamato e riceve il dono di entrare, dimorare e viaggiare in questo “spazio nuovo”, facendo da apripista, in ciò, per tutti coloro accanto ai quali vive e opera.

Nell’intervista concessa a Padre Antonio Spadaro e pubblicata su “La Civiltà Cattolica”, Papa Francesco offre in proposito delle indicazioni puntuali: occorre «sentire le cose di Dio a partire dal suo punto di vista», e così «fare le cose piccole di ogni giorno con un cuore grande e aperto a Dio e agli altri», «e valorizzare le cose piccole all’interno dei grandi orizzonti, quelli del Regno di Dio» (p. 453), per questo occorre coltivare la «sapienza del discernimento» (p. 454), aperti all’azione interiore e trasformante dello Spirito che c’introduce nel “pensiero di Cristo” (cfr. 1Cor 2,16) oggi, qui, per me, per noi. Scrive la Lumen fidei:

«Nella fede, l’“io” del credente si espande per essere abitato da un Altro, per vivere in un Altro, e così la sua vita si allarga nell’Amore. Qui si situa l’azione propria dello Spirito Santo. Il cristiano può avere gli occhi di Gesù, i suoi sentimenti, la sua disposizione filiale, perché viene reso partecipe del suo Amore, che è lo Spirito. È in questo Amore che si riceve in qualche modo la visione propria di Gesù» (n. 21). 

È, questo, un esercizio d’esistere esigente, rigoroso, crocifiggente – ma evangelico, liberante, foriero d’incontro, comunione, novità, gioia.

«Dio – ha detto il Papa nell’intervista di cui prima – Lo si incontra nella brezza leggera avvertita da Elia. I sensi che constatano Dio sono quelli che sant’Ignazio (di Loyola) chiama i “sensi spirituali”. (…) È necessario un atteggiamento contemplativo: è il sentire che si va per il buon cammino della comprensione e dell’affetto nei confronti delle cose e delle situazioni. Il segno che si è in questo buon cammino è quello della pace profonda, della consolazione spirituale, dell’amore di Dio, e di vedere tutte le cose in Dio» (p. 468).

3. Nella seconda parte della Lumen fidei Papa Francesco si sofferma su «la forma ecclesiale della fede» (n. 22) e, di conseguenza, sulla sua incidenza anche sociale e “politica”, nel senso originario del riferimento alla pólis, e cioè alla città degli uomini: non per niente il cap. IV porta il titolo “Dio prepara per loro una città”, rinviando a Eb 11,16.

Anche qui scelgo un’icona biblica, la lapidaria affermazione di Paolo nella lettera ai Romani: «siamo membra gli degli altri» (12,5).

Il “siamo” cui si richiama Paolo è un dato o, meglio ancora, un dono ontologico nel quale veniamo costituiti per la fede: la quale, innestandoci in Cristo, facendo di noi, ciascuno e insieme, il segno visibile e tangibile della sua presenza al mondo – è questo il senso originario del lemma paolino sóma Christoû –, al tempo stesso e perciò stesso ci fa «membra gli uni degli altri». Che non è cosa di poco conto, ma è addirittura il decisivo dell’evento della salvezza, il decisivo della presenza di Dio tra gli uomini!

Dunque, dimensione ecclesiale e intenzionalità sociale della fede e della nostra testimonianza alla luce di essa.

Cominciamo dalla dimensione ecclesiale. È tanto evidente che possiamo darla anch’essa per scontata, ma dobbiamo sempre di nuovo con parresia chiederci: praticamente, nella nostra esistenza, che ne è della forma ecclesiale della fede, senza la quale, pari pari, di fede in Cristo propriamente non si può parlare?

«Come Cristo – scrive la Lumen fideiabbraccia in sé tutti i credenti, che formano il suo corpo, il cristiano comprende se stesso in questo corpo, in relazione originaria a Cristo e ai fratelli nella fede» (n. 22).

La fede, celebrata nel battesimo e nell’Eucaristia, ci fa uno in Cristo Gesù (cfr. Gal 3,28). Nella fede, il credente sperimenta e confessa, nella grazia di Cristo, «che il centro dell’essere, il segreto più profondo di tutte le cose – scrive il Papa – è la comunione divina», la SS.ma Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, della cui vita d’inesauribile e sorprendente amore siamo resi partecipi in Cristo Gesù (cfr. n. 45).

Da ciò deriva – e il Papa lo ribadisce più di una volta nel corso dell’enciclica – «una logica nuova» (cfr. n. 20; n. 27). «Si tratta – spiega – di un modo relazionale di guardare il mondo, che diventa conoscenza condivisa, visione nella visione dell’altro e visione comune su tutte le cose» (n. 27).

In ciò è descritto il dover essere, o, meglio, il poter essere, in virtù della grazia, della comunità cristiana. In ciò ne va della coerenza tra il dono e il compito d’essere cristiani. Non si tratta di qualche cosa di esornativo o di opzionale: ma della sostanza stessa della fede, della testimonianza, dell’evangelizzazione. Almeno in due sensi.

a) Il primo è quello che ci costituisce appunto come corpo di Cristo, una cosa sola in Lui (cfr. Gal 3,28).

Non si tratta di mettere in atto, tra i cristiani, delle relazioni ispirate al bon ton, al gentlemen’s agreement, all’umana cortesia o al reciproco lasciar vivere, ma d’imparare – ed è cosa costosa, se e quando lo si fa – a esercitare la nostra visione nella visione dell’altro (così dice il Papa), di mettere in atto cioè quell’arte difficile, e in gran parte ancora inesplorata, che è il discernimento comunitario in cui chi si esprime attraverso la molteplicità delle nostre voci, alla fine, è un’altra voce: la voce del Cristo nel soffio dello Spirito – Lui che è l’unico Maestro, mentre noi tutti siamo fratelli (cfr. Mt 23,8).

Insomma, si tratta di acquisire una forma mentis et cordis realmente ecclesiale: non in astratto o idealisticamente, ma nel qui e nell’ora di questa, della nostra Chiesa. E qui c’è davvero tanto, tanto, tanto da fare!

In tal senso, penso non abbiano perso niente della loro attualità le indicazioni offerte da Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte, che oggi più che mai, alla luce del ministero di Papa Francesco, mostrano la loro incisività e urgenza:

«Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo» (n. 43).

Per far questo occorre “perdere tempo”, creare spazi, attivare la fantasia dell’amore. Insomma, la comunione e la comunità cristiana devono smettere di essere solo un nome (come troppo spesso rischia di essere): per diventare praticamente ciò che già sono per dono e vocazione.

b) La forma ecclesiale della fede, in secondo luogo, si esprime e, direi, ha il suo banco di prova e di verifica, nel nostro stile di essere cristiani.

Anche qui siamo «membra gli uni degli altri», con quello specifico e insostituibile dono che è confidato a ciascuno a servizio dell’edificazione della comunità cristiana e della sua missione tra la gente. Quante sapienti suggestioni – nate e maturate nel suo cuore di pastore allenato al contatto diretto, pelle a pelle, col suo popolo – ci offre in proposito Papa Francesco! Si potrebbe ricavarne un piccolo ma prezioso vademecum per il nostro  cammino di discepoli.

Innanzi tutto, egli valorizza la categoria biblica e teologica del Popolo di Dio, che è centrale nell’ecclesiologia del Vaticano II (cfr. Lumen gentium, 12). «Il popolo di Dio – dice nell’intervista pubblicata su “La Civiltà Cattolica” – è soggetto. La Chiesa è il popolo di Dio in cammino nella storia, con gioie e dolori. Sentire cum Ecclesia, dunque, per me, è essere in questo popolo» (p. 459).

Ovviamente, crescere e maturare in questo sentire non è scontato. Chiede di diventare esperti nell’arte di vivere il nostro essere con e per gli altri nella comunità cristiana, ascoltando ciò che lo Spirito ci dice attraverso la voce degli altri, di tutti: ciascuno secondo il suo ministero e il suo carisma! Lo dice Giovanni Paolo, riprendendo nella Novo millennio ineunte alcune perle della saggezza custodite dalla tradizione della Chiesa:

«Occorre a questo scopo far nostra l’antica sapienza che, senza portare alcun pregiudizio al ruolo autorevole dei Pastori, sapeva incoraggiarli al più ampio ascolto di tutto il Popolo di Dio. Significativo ciò che san Benedetto ricorda all’Abate del monastero, nell’invitarlo a consultare anche i più giovani: “Spesso ad uno più giovane il Signore ispira un parere migliore”. E san Paolino di Nola esorta: “Pendiamo dalla bocca di tutti i fedeli, perché in ogni fedele soffia lo Spirito di Dio”» (n. 45).

4. Ed eccoci all’ultimo punto toccato dalla Lumen fidei. Si tratta di declinare il tema della «forma ecclesiale della fede» nel suo risvolto essenzialmente missionario e nella sua rilevanza costitutivamente sociale e “politica”.

«(La fede) – scrive la Lumen fideinon si configura solo come un cammino, ma anche come l’edificazione, la preparazione di un luogo nel quale l’uomo possa abitare insieme con gli altri. (…) La fede rivela quanto possono essere saldi i vincoli tra gli uomini, quando Dio si rende presente in mezzo ad essi. Non evoca soltanto una solidità interiore, una convinzione stabile del credente; la fede illumina anche i rapporti tra gli uomini, perché nasce dall’amore e segue la dinamica dell’amore di Dio.

(…) La fede fa comprendere l’architettura dei rapporti umani, perché ne coglie il fondamento ultimo e il destino definitivo in Dio, nel suo amore, e così illumina l’arte dell’edificazione, diventando un servizio al bene comune. Sì, la fede è un bene per tutti, è un bene comune, la sua luce non illumina solo l’interno della Chiesa, né serve unicamente a costruire una città eterna nell’aldilà; essa ci aiuta a edificare le nostre società, in modo che camminino verso un futuro di speranza» (nn. 50-51).

 

Che cosa comporta, dunque, essere investiti e plasmati dalla «luce della fede» nel servizio di edificazione della società civile?

a) La prima e fondamentale cosa – Papa Francesco non si stanca di ribadirlo – è l’uscita dal chiuso di noi stessi e delle nostre comunità, il de-centramento, il superamento dell’autoreferenzialità, per camminare lungo le strade del mondo e farci compagni di viaggio con chi cerca, soffre, con chi è in qualunque modo messo ai margini. Quello è il posto di Gesù, e dunque il posto nostro e della comunità cristiana.

Il nostro stile e il nostro operare – che incidono prima di tutto sul nostro personale vissuto per irradiarsi di qui in tutte le direzioni – debbono guardarsi dalla tentazione (esplicita o nascosta, ma non meno perniciosa) di spendere le nostre forze nel costruire una comunità cristiana fortezza, recinto, ghetto, per edificare invece una comunità aperta, ospitale, conviviale, una comunità tenda, come quello di Abramo alle querce di Mamre, pronta ad accogliere gli sconosciuti visitatori, sotto le cui umane sembianze si nasconde Dio in persona.

Ecco – ancora una volta – le parole di Papa Francesco:

«Sogno una Chiesa madre e pastora. (…)essere misericordiosi, farsi carico delle persone, accompagnandole come il buon samaritano che lava, pulisce, solleva il suo prossimo. Questo è Vangelo puro.  (…) essere capaci di riscaldare il cuore delle persone, di camminare nella notte con loro, di saper dialogare e anche di scendere nella loro notte, nel loro buio senza perdersi» (p. 462).

In quest’ottica, si staglia in tutta la ricchezza del suo pertinente profilo, l’invito pressante del Vescovo di Roma a intraprendere le vie di una cultura dell’incontro, della prossimità, della solidarietà. Il cuore pulsante di questa cultura è il dialogo, inteso in quel significato antropologicamente ricco e teologicamente rigoroso che Paolo VI rimarcava con vividi accenti nelle straordinarie pagine dell’Ecclesiam suam:

«Il dovere congeniale al patrimonio ricevuto da Cristo è la diffusione, è l’offerta, è l’annuncio, ben lo sappiamo: Andate, dunque, istruite tutte le genti (Mt 28,19) (…) Noi daremo a questo interiore impulso di carità, che tende a farsi esteriore dono di carità, il nome, oggi diventato comune, di dialogo.

La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (nn. 66-67).

Le ragioni profonde, schiettamente evangeliche, di questo atteggiamento, Papa Francesco le ha illustrate nell’esordio della sua inaspettata lettera a Eugenio Scalfari, del 4 settembre scorso. Vi si legge:

«È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro. (…) questo dialogo non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un’affermazione a mio avviso molto importante dell’Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell’amore — vi si sottolinea — “risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti” (Lumen fidei, 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo».

b) Un accenno soltanto sulla rilevanza sociale di questo atteggiamento. La Lumen fidei, al n. 55, sottolinea che «la fede possiede una luce creativa per ogni momento nuovo della storia, perché colloca tutti gli eventi in rapporto con l’origine e il destino di tutto nel Padre che ci ama».

La Gaudium et spes, al n. 42, sottolineava, con pacata determinazione: «la forza che la Chiesa riesce a immettere nella società umana contemporanea, consiste in quella fede e carità portate ad efficacia di vita, e non esercitando con mezzi puramente umani un qualche dominio esteriore».

E la Lumen fidei offre al riguardo una puntuale lettura teologica della ragione evangelica di questa forma peculiare della missione della Chiesa:

«Come esperienza della paternità di Dio e della misericordia di Dio, (la fede) si dilata in cammino fraterno. Nella “modernità” si è cercato di costruire la fraternità universale tra gli uomini, fondandosi sulla loro uguaglianza. A poco a poco, però, abbiamo compreso che questa fraternità, privata del riferimento a un Padre comune quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere. Occorre dunque tornare alla vera radice della fraternità. (…) Nel procedere della storia della salvezza, l’uomo scopre che Dio vuol far partecipare tutti, come fratelli, all’unica benedizione, che trova la sua pienezza in Gesù, affinché tutti diventino uno. L’amore inesauribile del Padre ci viene comunicato, in Gesù, anche attraverso la presenza del fratello. La fede ci insegna a vedere che in ogni uomo c’è una benedizione per me, che la luce del volto di Dio mi illumina attraverso il volto del fratello» (n. 55).

Papa Francesco è intervenuto più volte, con le parole e con i gesti – penso anche soltanto alla sua visita a Lampedusa –, per dare concretezza, in forma di stimolo e di incoraggiamento, a queste prospettive. Del resto, è stata assidua e profonda l’esperienza che egli ha guadagnato, su questo fronte ineludibile della missione della Chiesa, nella sua frequentazione delle villas miserias di Buenos Aires, nel periodo del suo episcopato.

Mi limito appena a una citazione tratta, ancora una volta, dall’intervista pubblicata su “La Civiltà Cattolica”:

«C’è la tentazione di cercare Dio nel passato o nei futuribili. Dio è certamente nel passato, perché è nelle impronte che ha lasciato. Ed è anche nel futuro come promessa. Ma il Dio “concreto”, diciamo così, è oggi. Per questo le lamentele mai mai ci aiutano a trovare Dio. Le lamentele di oggi su come va il mondo “barbaro” finiscono a volte per far nascere dentro la Chiesa desideri di ordine inteso come pura conservazione, difesa. No: Dio va incontrato nell’oggi.

Dio si manifesta in una rivelazione storica, nel tempo. Il tempo inizia i processi, lo spazio li cristallizza. Dio si trova nel tempo, nei processi in corso. Non bisogna privilegiare gli spazi di potere rispetto ai tempi, anche lunghi, dei processi. Noi dobbiamo avviare processi, più che occupare spazi. Dio si manifesta nel tempo ed è presente nei processi della storia. Questo fa privilegiare le azioni che generano dinamiche nuove. E richiede pazienza, attesa» (pp. 467-468).

Anche se non guasta, in proposito, un po’ di profezia (che venga dall’impulso del Signore, beninteso, non dal nostro sentire!), come Papa Francesco precisa nella stessa intervista: «La profezia fa rumore, chiasso, qualcuno dice “casino”. Ma in realtà il suo carisma è quello di essere lievito: la profezia annuncia lo spirito del Vangelo» (p. 465).

5. Concludo.

Nella preghiera con cui termina la Lumen fidei, il Papa si rivolge a Maria. Non è un fatto formale e scontato. Lo intuiamo bene, infatti, chi è Maria per lui – cristiano, prete, vescovo, papa.

Ebbene, egli le dice: «Insegnaci a guardare con gli occhi di Gesù, affinché Egli sia luce sul nostro cammino» (n. 60). Questa preghiera richiama quanto è scritto nelle prime pagine della Lumen fidei, al n. 5:

«Negli Atti dei martiri leggiamo questo dialogo tra il prefetto romano Rustico e il cristiano Gerace: “Dove sono i tuoi genitori?”, chiedeva il giudice al martire, e questi rispose: “Nostro vero padre è Cristo, e nostra madre la fede in Lui”. Per quei cristiani la fede, in quanto incontro con il Dio vivente manifestato in Cristo, era una “madre”, perché li faceva venire alla luce, generava in essi la vita divina, una nuova esperienza, una visione luminosa dell’esistenza per cui si era pronti a dare testimonianza pubblica fino alla fine».

Ecco un invito a che l’esperienza della maternità tenera e forte, paziente e perseverante di Maria, nei confronti di ciascuno di noi personalmente, e insieme ai nostri fratelli e sorelle nella fede, ispiri e dia forma e profezia allo stile del nostro cammino e della nostra testimonianza.

Siamo infinitamente grati a Gesù per averci chiamati a stare con lui e perché ci invia ad annunciare la notizia più bella e più vera che ha trasfigurato la nostra vita (cfr. Mc 3,14-15)!

Accogliere Maria a casa nostra, tra le cose nostre più intime e care (cfr. Gv 19,26-27), ci dice che il cammino di fede che insieme per dono percorriamo chiede a tutti noi non tanto e non solo di gestire ciò che siamo e viviamo e operiamo: ma di gestarlo insieme, e cioè di partorire, custodire e accompagnare, in reciprocità d’intenti e azioni, passo dopo passo, incontro dopo incontro, progetto dopo progetto, la crescita di ciascuno e di tutti – nessuno escluso – verso la statura matura e perfetta dell’Uomo nuovo e uno che già siamo in Cristo Gesù (cfr. Ef 4, 13).

È questo lo stile di Maria: che nel suo fiat a Betlemme ripetuto, nuovo, ai piedi del Crocifisso, ha dato le sue carni e la sua vita al seme di una nuova umanità.

Piero Coda  


[1] A. Rosmini, Teosofia, n. 898; Opere, Ist. di Studi Filosofici – Centro di Studi Rosminiani – Città Nuova, Roma 1998, vol. 13, p. 209

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