Educare è diverso da insegnare delle nozioni, di Martin Buber

Educare è diverso da insegnare delle nozioni, di Martin Buber

da Discorsi sull’educazione, di Martin Buber

p. 83ss.

   

L’educazione che merita questo nome è sostanzialmente educazione del carattere: infatti il vero educatore non tiene conto esclusivamente delle singole funzioni dell’allievo. A differenza di colui che intende semplicemente fargli acqui­sire determinate conoscenze o competenze, il vero educa­tore sente di avere a che fare sempre e comunque con tutta la persona. Con tutta la persona quindi, sia nella sua fattua­lità (Tatsächlichkeit), nel presente, nel momento in cui l’al­lievo ti sta di fronte, sia nella sua potenzialità, vale a dire ciò che l’allievo potrebbe diventare. In questo modo tutta­via, in quanto totalità (Ganzes) reale e potenziale, si può considerare (fassen) una persona o come personalità, cioè come entità (Gestalt) unica di corpo e spirito, unitamente alle energie che la abitano, o come carattere (Charakter) vale a dire come nesso (Zusammenhang) tra l’unicità del singolo e la successione (Folge) delle sue azioni e atteg­giamenti. Tra queste due modalità di considerare l’allievo nella sua totalità esiste una fondamentale differenza. La personalità è qualcosa che si forma essenzialmente al di fuori dall’influenza (Einwirkung) dell’educatore, la forma­zione del carattere, al contrario, è parte integrante e cen­trale del compito dell’educatore. La personalità è qualcosa di compiuto (Vollendung), ma solo il carattere rappresenta un compito (Aufgabe): una personalità può essere curata e incoraggiata, mentre si può e si deve lavorare sull’educa­zione del carattere. Naturalmente, e voglio anticiparlo fin d’ora, è consiglia­bile non sopravvalutare quanta parte della formazione del carattere dipenda dall’educatore. In questo ambito pedago­gico, più che in qualsiasi altro, è importante porre dei limiti concreti alla possibilità di influire in modo consapevole, e ciò prima ancora di analizzare in cosa il carattere consista e prima di domandarsi come lo si educhi. Se devo insegnare algebra posso contare sul fatto che riuscirò a trasmettere ai miei allievi delle conoscenze ri­guardo alle equazioni di secondo grado a due incognite. Anche l’allievo che possiede una capacità di comprensione lentissima le capirà così bene che di notte quando non rie­sce a dormire passerà il tempo pensando a come risolvere le equazioni, e anche colui che ha la memoria più pigra non dimenticherà nemmeno quando sarà in là con gli anni come si possono utilizzare la x e la y. Quando invece ho a che fare con l’educazione del carattere tutto diventa pro­blematico. Io cerco di spiegare ai miei alunni che l’invidia è un sentimento disdicevole, ma facendo ciò già avverto la segreta resistenza di coloro che possiedono meno dei loro compagni; cerco di spiegare che non sta bene picchiare i più deboli e già colgo il sorriso a mezza bocca sulle labbra dei più forti; cerco di spiegare che la menzogna distrug­ge la vita e succede una cosa terribile: il peggiore e più assiduo bugiardo scrive un fantastico componimento sulla potenza distruttrice della menzogna. Ho commesso il fata­le errore di fare lezione (unterrichten) sull’ethos e quanto ho detto viene considerato come bagaglio di conoscenza accessibile e spendibile: nulla di ciò che ho detto si trasfor­ma in qualcosa di sostanziale che sia in grado di edificare il carattere. Ma la problematica è ancora più profonda. In ogni lezione posso manifestare chiaramente la mia inten­zione di voler insegnare qualcosa agli allievi, e questo non pregiudica l’efficacia del mio insegnamento, dato che per lo più gli allievi vogliono imparare qualcosa, anche se non troppo: un tacito accordo è quindi possibile. Quando però gli allievi si accorgono che voglio educare il loro carattere, sono proprio quelli tra loro che hanno già strumenti neces­sari per acquisire un carattere autonomo che si ribellano: questi non vogliono farsi educare, o meglio, non vogliono che li si voglia educare. Anche coloro che riescono a porsi seriamente domande sul bene e il male si indignano – pro­prio perché sperimentano di continuo quanto sia difficile trovare la strada – e si indignano per il fatto che si vuole imporre loro il concetto di cosa siano il bene e il male, come se si trattasse di qualcosa di codificato da tempo. Ciò significa forse che bisogna tacere la propria intenzione di educare il carattere, e che bisogna procedere all’opera di nascosto e con furbizia? No, dicevo appunto che la questio­ne è più profonda. Non basta non concentrare l’educazione del carattere nell’ora di lezione, né la si può mascherare in pause istituite con oculatezza. L’educazione non tollera che si attui una strategia di tipo politico. Anche se l’allie­vo non si accorge di un intento nascosto, questo intento si ripercuote sull’agire del maestro e lo priva della sua imme­diatezza, che è poi la sua forza. Sulla totalità dell’allievo agisce veramente (wahrhaft) solo la totalità dell’educatore, la sua autentica esistenza. L’educatore non ha bisogno di essere un genio dell’agire etico per educare il carattere, ma deve essere una persona integrata e vitale che si manifesta in modo diretto agli altri: la sua vitalità si irradia agli altri e li influenza con tanta più forza e purezza quanto meno egli pensa di volerli influenzare.

La parola greca carattere significa impressione (Einprägugung). Il particolare nesso che nella persona esi­ste tra essere (Sein) e apparire (Schein), lo speciale legame che esiste tra l’unitarietà della persona e l’insieme delle sue azioni e dei suoi atteggiamenti viene impresso (eingeprägt) nella sua materia ancora plastica.

Cosa imprime la materia? Tutto imprime (prägt): la na­tura e l’ambiente sociale, la casa e la strada, la lingua e i co­stumi, il mondo della storia e il mondo delle notizie quoti­diane – pettegolezzi, radio e giornali, la musica e la tecnica, il gioco e il sogno, tutto insieme. Alcune cose nel momento in cui si crea accordo, imitazione, nostalgia e aspirazione; altre cose nel momento in cui emergono domande, dubbi, rifiuto e resistenza. Proprio attraverso la commistione di ef­fetti di diverso tipo, e tra loro contrari, si forma il carattere. E in mezzo a questa infinità di cose che lasciano un segno (prägt) si trova l’educatore, solo un elemento, tra gli innu­merevoli, ma diverso da tutti gli altri perché rappresenta di fronte alla persona in crescita a volontà di partecipare alla impressione (Prägung) del carattere, e ciò grazie alla sua consapevolezza (Bewusstsein) di rappresentare una determi­nata selezione dell’essere (Auswahl des Seins), la selezione del “giusto”, di ciò che deve essere (was sein soll). In questa volontà e in questa consapevolezza si esprime fondamen­talmente la sua vocazione in quanto educatore. Ne derivano per l’educatore due cose: innanzi tutto l’umiltà, il sentire di essere solo un elemento nella sovrabbondanza della vita, solo una singola esistenza in mezzo alla incommensurabile realtà che agisce sull’allievo. In secondo luogo però l’au­to-riflessione (Selbstbesinnung), il sentire di essere l’unica esistenza che vuole influire su tutta la persona e ancora, cor­relata a tale sentire, la coscienza della responsabilità per la selezione dell’essere, e per l’assunzione di questa responsa­bilità di fronte all’allievo. Infine un terzo elemento deriva da tutto ciò: il riconoscere che nell’ambito dell’educazione del carattere, l’educazione della persona nel suo insieme, esiste solo una via di accesso all’allievo: la sua fiducia.

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