XVI CONGRESSO NAZIONALE S.I.C.P.

XVI CONGRESSO NAZIONALE S.I.C.P.

Data: 27/10/2009

PER UN’ETICA DELLA MISERICORDIA E DELLA SOLIDARIETA’

1. Sono grato ai responsabili e agli organizzatori di questo Congresso Nazionale della Società italiana di cure Palliative per avermi invitato, come credente che vive una particolare responsabilità di guida e di testimonianza nella Chiesa, ad offrire una riflessione a un consesso che ogni anno – penso – vi vede insieme ad affrontare uno dei grandi drammi dell’uomo: il dolore.
Solo da quattro mesi sono vescovo in questa meravigliosa e affascinante città che continua a catturarmi con la sua bellezza ricamata e resa arte nella pietra o nella cartapesta.
Il mistero del dolore, come per ogni uomo, non mi è estraneo. L’ho vissuto, e con momenti altamente critici, nella mia carne. L’ho visto con i miei occhi e toccato con le mie mani nel mio lungo ministero di Sacerdote e vescovo, soprattutto negli ultimi sei anni della mia vita quando, per volontà della Chiesa, ho portato sulle spalle la responsabilità, anche legale, come Presidente della grande opera di carità di un grande Santo, Padre Pio da Pietrelcina: la Casa Sollievo della Sofferenza di S. Giovanni Rotondo.

IL DOLORE

2. Sul perché del dolore, in una ricerca scientifica e razionale, la risposta è evidente. Ogni forma di dolore è riconducibile al limite che riguarda la struttura umana. Anzi, a tutti livelli, il dolore è nella struttura ed è una funzione positiva della struttura stessa.
In un bellissimo documento sul senso cristiano della sofferenza umana, dal titolo Salvifici doloris, Giovanni Paolo II che ha avuto una grande e personale dimestichezza con il dolore, scriveva: “II tema della sofferenza è universale e accompagna l’uomo ad ogni grado della longitudine e della latitudine geografica: esso, in un certo senso, coesiste con lui nel mondo, e perciò esige di essere costantemente ripreso” (n.2).
Possiamo non porci la questione sull’origine e sulla qualità del dolore, ma di sicuro la domanda: perché? Perché proprio a me?, almeno una volta si è posta.
Con questa domanda l’uomo, rivolgendosi ad un interlocutore che può essere
Dio, il destino, il fato, o paradossalmente nessuno, mette in luce quella insolubile contraddizione che è nella sua natura: essere mortale e, nello stesso tempo, bramare l’immortalità.
Blaise Pascal, in una celebre frase: “L’uomo è una canna che pensa”, dice l’indigenza, la fragilità e precarietà della condizione umana che convive con possibilità immense.
J. P. Sartre nel suo nichilismo definisce l’uomo una “passione inutile” e dunque vede la sua sorte, il suo destino, segnati irrimediabilmente da un dolore insensato.
Per G. Marcel l’uomo porta in sé come una sete vitale d’infinito e una sorgente di speranza e dunque, anche nell’esperienza di una rovina totale che talvolta si sperimenta nei drammi di condanne definitive, c’è una speranza metafisica di essere presente sempre e comunque.
Il moribondo che spera finché ha coscienza e respiro, attinge a qualcosa che lo riscatta, che gli promette l’integrità al di là del fatto obiettivo se ci sarà o no la guarigione. Ma tale speranza è già una risposta all’essere e una vittoria sulla morte.
Se la morte che, emblematicamente, è il simbolo di ogni dolore avvertito come perdita di essere, ha un significato, l’intera vita dell’uomo e dell’universo può essere pensata come progetto pervaso da una intrinseca finalità e vissuta nella speranza. Nell’ipotesi contraria “l’uomo è solo nell’immensità indifferente dell’universo da cui è emerso per caso” come ha detto J. Monod, “ed ogni cosa, ogni decisione possibile porta le stigmate del non-senso. Nella vertigine di queste possibilità si situa tutto il dolore del mondo”. 2
L’esperienza universale del dolore e il tentativo di darne una spiegazione hanno originato “le teorie del dolore” che non possono nulla sulla realtà di chi soffre. Il dolore trasferito dal piano esistenziale a quello concettuale perde la concretezza di chi soffre, di chi vive nella propria carne la forza, a volte devastante, e voi, cari amici, lo testimoniate, della sofferenza.
Discettare o disputare sul dolore è tutt’altra cosa che soffrire.

3. La Bibbia è una lunga cronistoria del dolore dell’uomo e dei tanti tentativi di trovare delle risposte, a volte comprensibili e accettate, molto spesso misteriose, talvolta rifiutate.
Emblematica al riguardo è la vicenda del giusto Giobbe, lacerato tra la sua fede e il dolore che lo distrugge, quasi annientandolo e da cui Dio non lo salva. Giobbe vuole capire perché Dio castigo chi lo ama mentre “ i malvagi continuano a vivere, e invecchiando diventano più forti e più ricchi ” (Gb21,7).
La mancata risposta di Dio ha una funzionalità pratica e spirituale, serve a ridimensionare l’uomo.
Quando il Signore rimette Giobbe a una giusta distanza da lui, da una risposta: la richiesta di Giobbe , togliere il dolore, è una richiesta impossibile: il dolore non può essere tolto.
Il vero problema non è il chiedersi perché, ma piuttosto capire come assumere questa realtà vissuta spesso con angoscia, sentita come negatività e dalla quale si reclama salvezza.
Un verità filosofica sul dolore non serve, non c’è! Filosofare su questo dramma umano è una sorta di scappatoia di chi vuole evitare un coinvolgimento più profondo.

4. Cari amici, sono un credente e vi parlo da credente non avulso o assente dalla vicenda umana in cui mi sento immerso con una convinzione profonda che è quella di ascoltare e condividere nella solidarietà che si fa vicinanza attenta e amorevole ai tanti crocifissi che ogni giorno incontro e per i quali, ove occorra, devo farmi cireneo, meglio ancora buon samaritano.
La fede che vivo mi conferma che Dio non è assente come a volte il dolore potrebbe farci credere, anzi è a tal punto presente da incarnarsi nella nostra stessa fragilità e precarietà, dinamiche profondamente umane che aprono alla sofferenza.
Per il mistero della morte e risurrezione di Cristo, su ogni umana sofferenza c’è la garanzia divina di un significato. Un Dio che soffre ed è il Cristo sulla Croce è la scoperta di una vicinanza amorosa insostituibile. Dio diventa la possibilità estrema della speranza proprio nell’esperienza della più profonda disperazione.
Il grido di abbandono di Cristo sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46), è il punto culminante dell’autocomunicazione di Dio nella storia, quando ci si manifesta come l’amore stesso”. 3
In fondo Gesù di Nazaret ci ha indicato una via: quella della solidarietà per l’uomo, quella del chinare o volgere il proprio cuore ai miseri, ai provati dal dolore che molto spesso emargina e isola. Dunque solidarietà e misericordia.
Penso che molti tra noi, il sottoscritto di sicuro, conoscano una delle più belle parabole di Gesù, quella del Buon Samaritano, colui che sulla strada si ferma a prestare soccorso al nemico dichiarato: un giudeo.
E’ ancora una citazione del documento di Giovanni Paolo II citato poc’anzi: “Buon Samaritano è ogni uomo che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque essa sia. Quel fermarsi non significa curiosità, ma disponibilità. Buon Samaritano è ogni uomo sensibile alla sofferenza altrui” (n.28).
Il vostro impegno accanto alla sofferenza dell’uomo non può fermarsi e di fatto non si ferma alla compassione, va oltre, porta aiuto nella sofferenza, qualunque essa sia.
Penso che molti tra noi, il sottoscritto di sicuro, conoscano una delle più belle parabole di Gesù, quella del Buon Samaritano, colui che sulla strada si ferma a prestare soccorso al nemico dichiarato: un giudeo.

E CONCLUDO:

5. “II mondo dell’umana sofferenza invoca senza sosta un altro mondo: quello dell’amore umano; e quell’amore disinteressato, che si desta nel suo cuore e nelle sue opere, l’uomo lo deve in un certo senso alla sofferenza. Non può l’uomo prossimo passare con indifferenza davanti alla sofferenza altrui. Egli deve fermarsi, commuoversi” ( Salvifici doloris, 29).
Voi siete in prima linea in questo essere con, accanto all’uomo sofferente e bisognoso di aiuto.
Vi lascio con un invito pressante e accorato di un’ammalata di cancro che nella recente visita di Benedetto XVI alla Casa Sollievo della Sofferenza, lo scorso 21 giugno, lanciava questo appello: “Un pensiero particolare va a tutti coloro che hanno cura di noi malati, perché imparino che più che le medicine, possono l’amore e l’umanità. Non ci lasciate soli con i nostri pensieri, le nostre paure e quando non avete nulla da dire non vi preoccupate, basta che ci prendiate solo per mano e poi sapremo e sentiremo che ci siete”.

Autore/Fonte: Mons. Domenico D’Ambrosio