DIVENTARE DIMORA DI DIO PER MEZZO DELLO SPIRITO

DIVENTARE DIMORA DI DIO PER MEZZO DELLO SPIRITO

PRIMA LETTERA SINODALE

TERMOLI 1997

INTRODUZIONE

In lui – Cristo Gesù – ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite   edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito (Ef 2,21-22).

 

 

Prendo dalla Lettera agli Efesini l’immagine di Chiesa che insieme dobbiamo saper interpretare mentre condividiamo l’ansia e la gioia del “convenire sinodale”.

L’Apostolo Paolo in questi due versetti raffigura il dinamismo spirituale dei credenti in Cristo Gesù che interpretano oggi la realtà dell’essere Chiesa, avendo come modello di riferimento il Cristo stesso e come condizione di edificazione e di crescita lo Spirito Santo.

Offro a tutti voi alcune considerazioni sintetiche per meglio comprendere il testo proposto:

 

–          L’affermazione paolina utilizza una parola-chiave che può essere assunta per noi come riferimento esplicito all’opera si nodale : “costruire la casa-chiesa”. Così sul motivo della costruzione si applicano le immagini simili: i credenti sono edificati sul fondamento degli apostoli; Cristo è la pietra angolare (o basilare); l’umanità in Cristo rappresenta una costruzione ben ordinata; la chiesa è il tempio santo di Dio. Si tratta di una descrizione dinamica proposta secondo un crescendo di motivi legati tutti al verbo “costruire”.

–          Nel brano che abbiamo davanti si mette in risalto il ruolo unico di Cristo, da cui dipende la vita e il destino della Chiesa. L’unione del corpo mistico implica la dinamica della conversione, della riconciliazione e della missione. Così l’applicazione del simbolo dell’edificio alla chiesa convocata evidenzia l’incontro vitale e trasformante delle ricchezze spirituali e delle diversità che maturano nella comune esperienza del cammino di fede, producendo i segni di una nuova umanità.

–          Nella casa che è la chiesa non ci sono divisioni né muri. Costruire significa collaborare senza parzialità né ostilità, arrivismi o protagonismi. La casa è esperienza di condivisione e di appartenenza, non luogo di arroccamenti e di sicurezze. L’amore liberante di Dio spinge ciascun credente a dare se stesso per edificare il tempio, dove l’uomo dovrà essere servito, perché è immagine irripetibile della misericordia e della bontà del Padre.

 

L’Apostolo ci ricorda che il celeste edificio della Chiesa in Cristo “ben ordinato”, ben compaginato, in Cristo “cresce… in tempio santo nel Signore”.

La Chiesa dunque trova la sua forza, la sua salvezza in Cristo.

La Chiesa intanto cresce in quanto le sue pietre poggiano in Cristo.

Il motivo della crescita è il “tempio santo nel Signore”.

La crescita della Chiesa verso la propria santità in Cristo è un cammino, è un processo costante. Il modo di essere della Chiesa è la sua crescita. La Chiesa è in quanto cresce. Con il battesimo siamo stati inseriti nel grande edificio della Chiesa, siamo dunque inseriti in una costruzione che cresce continuamente verso la perfezione della santità.

Questa visione della grande santità della Chiesa, ponendo in secondo piano il pensiero della salvezza del singolo, fa percepire al credente «la dignità e la grandezza della sua esistenza nell’opera completa a cui è chiamato a contribuire, che cioè si edifichi il tempio di Dio e che esso sia degno di Dio stesso. E il cristiano serve a questa opera non solo con tutto ciò che fa, ma con tutto se stesso, con tutto il suo essere, in quanto inserito nel tempio di Dio al proprio posto, singolare e insostituibile»[1].

Nello stesso tempo poiché compaginata ed edificata in Cristo, fondata sugli Apostoli e sui profeti, cresce costantemente in “tempio santo nel Signore”. È un edificio terminato, in perenne crescita a causa dei nuovi membri che continuamente si aggiungono e vengono inseriti in lei. Si trova pertanto nel già della sua pienezza e nel non ancora della sua finale realizzazione.

L’ingresso nella pienezza del mistero di Dio nel limite della storia fa della Chiesa il segno della perfezione che, offerta agli uomini, dischiude gradatamente, inserendosi nelle leggi dell’umano divenire, la sua luce e la sua bellezza attraversando gli spazi che la disponibilità e l’accoglienza dell’uomo riescono a garantire.

Ho voluto offrire questa riflessione come introduzione al discorso che motiva questa lettera pastorale, il Sinodo Diocesano, perché non può comprendersi una tale, singolare espressione dell’essere e del vivere la comunione nella e della Chiesa, astraendo o facendo a meno della visione della Chiesa che, fondata in Cristo, è e cresce costantemente in “tempio santo del Signore” attraverso la consapevole accoglienza e l’esercizio effettivo della comunione che, dono dall’alto,si incunea nelle attese di speranza che hanno il potere di agitare e rimettere in movimento “la partecipazione e il discernimento ecclesiale”.

 

Le linee che seguono vogliono soltanto essere l’aiuto per una prima riflessione su questo evento che come chiesa locale vogliamo celebrare.

Più che essere un discorso in se stesso completo, assumono la forma di una serie di suggerimenti, quasi una sorta di “paniere” in cui attingere temi ed inviti all’approfondimento.

Assumono pertanto la forma di indicazioni piuttosto che essere una trattazione organica e in se stessa completa. Dopo un richiamo alla chiesa come “popolo di Dio” e “mistero di comunione”, ci soffermeremo sulla realtà della chiesa locale che è il soggetto che celebra il sinodo, quindi, alla luce dei documenti magisteriali, presenteremo le caratteristiche e le dinamiche che devono segnare l’avvenimento sinodale all’interno di quella porzione del popolo di Dio che è la nostra chiesa locale.

 

 


IL MISTERO DELLA CHIESA COMUNIONE

 

 

Il mistero della chiesa comunione

Non possiamo non partire nella nostra riflessione, da quel grande evento che ha segnato la storia della Chiesa in questo secolo: il Concilio Vaticano II.

Gli anni che ci separano dalla sua celebrazione non hanno offuscato il suo messaggio, bensì lo hanno reso ancor più attuale; il concilio non è un evento da ammirare e nemmeno solo da comprendere, ma uno specchio in cui riflettere la nostra chiesa reale, per un impegnativo esame di coscienza e per una corrispondente adeguata riforma.

Il concilio, lo sappiamo bene, sin dall’inizio si è caratterizzato come il «concilio della Chiesa”. Il suo messaggio trova i suoi pilastri (o linee portanti) nelle costituzioni Lumen gentium e Gaudium et spes. La prima guarda alla Chiesa in se stessa; la seconda considera la Chiesa nel suo porsi nel mondo. Non sono pochi i teologi che sostengono “che gli altri documenti del Concilio non fanno che esplicitare e approfondire quanto in queste due costituzioni è trattato nell’organicità di una visione d’insieme»[2].

All’interno di questi documenti troviamo una grande varietà di immagini per indicare la realtà della Chiesa: nessuna pretende di esprimere tutto il mistero, ognuna ne sottolinea un aspetto.

Alcune immagini sono desunte dalla vita pastorale: la chiesa diventa allora l’ovile, la cui porta è Cristo; oppure il gregge di cui Cristo è il pastore.

Altre immagini sono desunte dalla vita agricola. La chiesa è allora il terreno nel quale è gettata la semente, il campo coltivato da Dio o la vigna da lui piantata.

Molte immagini ruotano attorno all’idea di edificio o di casa. La Chiesa è chiamata l’edificio di Dio, la casa di Dio o il tempio santo. Cristo è la pietra angolare di questo edificio; i credenti, diventati tempio di Dio, costituiscono questo edificio, quali pietre vive.

Due immagini sembrano, più di altre, rendere ragione della realtà della Chiesa: popolo di Dio[3] e “chiesa comunione”[4].

La prima espressione ci ricorda sia la continuità che la radicale novità della Chiesa rispetto al popolo d’Israele; la stessa continuità e novità che c’è tra antica e nuova alleanza. Ma questa espressione indica anche la pari dignità di tutti i battezzati. Essa indica infine che la Chiesa è chiamata a vivere la sua storia lungo i secoli nella fedeltà al Vangelo e, nello stesso tempo, mescolata con tutti i popoli della terra: «…pur non comprendendo di fatto tutti gli uomini, e apparendo talora come il piccolo gregge, costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo in una comunione di vita, di carità e di verità, è pure da lui preso per essere strumento della redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (Mt 5,12-16), è inviato a tutto il mondo»[5].

Il secondo titolo costituisce «il tema perenne del mistero della Chiesa e il più pregnante della riflessione conciliare. Dall’approfondimento dottrinale che esso richiede vengono messi in luce, tra l’altro: la fonte di ogni comunione che è la Trinità, la centralità di Cristo, la potenza dello Spirito, il valore del Sacramento dell’eucaristia, il legame fraterno tra i discepoli del Signore, il ruolo ecclesiale dei ministeri, la complementarietà dei membri della Chiesa, l’anelito alla compiutezza della comunione nel giorno del ritorno del Cristo glorioso»[6]. Affinché questa ricchezza di significati non vada smarrita o non si perda nei rivoli delle nostre letture, ci viene ricordato che nella comunione bisogna sempre tener; presente «una duplice dimensione: verticale (comunione con Dio) e orizzontale (comunione tra gli uomini). È essenziale alla visione cristiana di comunione riconoscerla innanzi tutto come dono di Dio, frutto dell’iniziativa divina compiuta nel mistero pasquale. La nuova relazione tra Dio e l’uomo, stabilita in Cristo e comunicata nei Sacramenti, si estende anche a una nuova relazione degli uomini tra di loro»[7].

Nella Christifideles laici Giovanni Paolo II, riproponendo le parole di Gesù: Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo […], rimanete in me e io in voi (Gv 15,1-4), parole della comunione misteriosa che vincola in unità il Signore e i discepoli e i cristiani tra di loro, afferma che: «Tale comunione è il mistero stesso della Chiesa»[8]… «è […] un grande dono dello Spirito Santo, che i fedel i laici sono chiamati ad accogliere con gratitudine e, nello stesso tempo, a vivere con profondo senso di responsabilità. Ciò si attua concretamente mediante la loro partecipazione alla vita e alla missione della chiesa, al cui servizio i fedeli laici pongono i loro diversi e complementari ministeri e carismi»[9]

A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo […]. È Lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (Ef 4, 7.11-14).

La molteplicità e diversità dei ministeri è per l’edificazione del corpo di Cristo, è per attuare la missione salvifica della Chiesa una, santa, cattolica chiamata a realizzarsi nel tempo e nella storia come germe ed inizio del regno di Dio[10].

È una perché una è la sorgente. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti (Ef 4,6); si esprime nella professione di una sola e medesima fede; è fondata nell’unico battesimo che fa di tutti i discepoli un solo corpo; cresce e si rinnova continuamente nell’Eucaristia che è il “vincolo della carità”; è, infine, unità che si esprime nella comunione.

È santa perché ha origine da Dio che è santo; perché è legata strettamente a Cristo e perché animata dallo Spirito che non le viene mai meno. Essa è santa per il suo Credo, per i suoi Sacramenti, per i ministeri che le permettono di adempiere la sua opera. È santa perché popolo di “chiamati alla santità”.

È cattolica perché le è stata data “la pienezza della grazia e della verità” nel giorno di Pentecoste; perché è chiamata a diffondersi in tutte le nazioni; perché è chiamata ad assumere nella loro diversità le aspirazioni e i progetti di bene degli uomini, e a riunire nell’unità, senza mortificarle, l’infinita varietà delle culture e delle realtà umane.

 

 

 

La Chiesa locale

 

Ci si potrebbe chiedere: “dove” posso incontrare oggi questa stupenda realtà di comunione, “dove” posso vivere la vita della Chiesa?

Lo stesso Concilio viene in nostro aiuto quando insegna che la Chiesa di Gesù Cristo si realizza attorno al vescovo e all’Eucarestia[11]. La chiesa infatti non è realtà astratta o generica, ma si rende presente e visibile in un luogo, nella Chiesa particolare, di cui il vescovo è pastore proprio. La Chiesa particolare è chiamata “diocesi”. Dire la diocesi di Termoli-Larino equivale a dire: “la Chiesa di Cristo che è presente nel territorio di Termoli-Larino, riunita attorno al suo vescovo”.

Parlando di Chiesa locale da un punto di vista socio-pastorale intendiamo una Chiesa che «si radica in quel contesto, si incarna tranquillamente, si dona in quella situazione, che non è la stessa dal Nord al Sud [..].E qui c’è ancora molto da fare.

Per motivi complessi e molteplici le nostre Chiese faticano ad avere fisionomie definite e individuabili; ad esprimere con timbro e tonalità propria la loro fede. Ma, a questo proposito, tutti dobbiamo seriamente convincerci che una chiesa così si costruisce nella fatica quotidiana, nella ferialità della vita, nella complementarietà delle componenti: con persone concrete, in un luogo determinato, con questo vescovo, in questo campo. La chiesa, se è locale, non consente né evasioni né fughe»[12].

L’insegnamento del Vaticano II sulla Chiesa locale diventa concreto e chiaro quando definisce la diocesi: «una porzione del popolo di Dio che è affidata alle cure pastorali del vescovo coadiuvato dal suo presbiterio in modo che, aderendo al suo pastore e da Lui unita per mezzo del Vangelo e della Eucaristia nello Spirito Santo, costituisce una chiesa particolare, nella quale è veramente presente e agisce la Chiesa di Cristo, una, santa, cattolica e apostolica»[13]. L’insegnamento del Concilio sulla Chiesa locale è stato per tante diocesi «come lo svelarsi di un mistero, l’epifania dell’evento Chiesa, perché si è passati

– da una con notazione giuridico – amministrativa a una visione teologico-pastorale;

– da una visione societaria dell’ecclesìa alla contemplazione di un mistero che viene dalla Trinità e della Trinità porta il sigillo;

– dalla astratta enunciazione dell’universale alla gioiosa esperienza dell’evento.

Il dono infinito è divenuto avvenimento, esperienza. La Parola è risuonata nella molteplicità dei linguaggi. Il Pane ha radunato intorno alla mensa la famiglia dei discepoli. L’Apostolo con la forza dello Spirito, ha riscoperto la cura continua e quotidiana di un popolo in cammino. Tutti abbiamo riscoperto i lineamenti di volto familiare: la Chiesa nostra madre»[14].

La partecipazione alla vita ecclesiale di ogni battezzato, segnatamente dei fedeli laici non può escludere o ignorare quell’originale legame che unisce la Chiesa particolare alla Chiesa universale; deve, pertanto, essere animata da una visione di ampio respiro, cioè “cattolica”, universale: «La Chiesa – scrive Giovanni Paolo II -si sente debitrice alla umanità intera e a ciascun uomo del dono ricevuto dallo Spirito che effonde nel cuore dei credenti la carità di Gesù Cristo, prodigiosa forza di coesione interna ed insieme di espansione esterna»[15].

Tale rinnovato volto si rivela carico di impegno per tutti noi: non è più possibile tirarci indietro; l’espressione: “noi siamo la Chiesa”, troppo spesso utilizzata solo come slogan, indica il luogo in cui tradurre l’esperienza della “comunione” che nella vita di ciascuno suona come un triplice “no” da pronunciare:

 

no al disimpegno;

no alla divisione;

no alla nostalgia del passato;

ed un triplice “sì” da realizzare con altrettanta forza:

sì alla partecipazione;

sì alla comunione;

-sì all’impegno di rendere la nostra comunità più simile a ciò che Cristo ci chiede.

Prescindendo dalla visione ecclesiologica di comunione e missione che il Concilio Vaticano Il e la successiva costante riflessione e riproposizione del Magistero ci offrono, daremmo spazio incerto e claudicante alle tante urgenze pastorali, alle sfide provocatorie cui cultura e prassi espongono la Chiesa, alle crepe che le moderne letture sociologiche mettono in evidenza sulla tradizionale e sedimentata religiosità delle nostre comunità.

 

 

 

Il nostro tempo e il nostro luogo

 

Il luogo, o territorio, non è un elemento secondario nel tratteggiare il volto di una chiesa locale. Esso non è da intendersi soltanto come elemento geografico, ma soprattutto come “ambiente umano” in cui giocano a vari livelli cultura, storia e tradizioni. Insistere in un luogo significa accettare la fatica della storia degli uomini con la quale ormai, in forma indissolubile, è legata la storia della salvezza. Il tempo che viviamo è il tempo a noi affidato perché diventi “momento favorevole di salvezza”.

Vogliamo qui ricordare solo alcuni tratti del nostro tempo e del nostro luogo da un lato per coglierne la complessità, dall’altro per sperimentare il nostro essere in comunione con tutta la Chiesa.

Il contesto storico-ecclesiale che fa da sfondo all’esperienza sinodale, è sicuramente provvidenziale e interessante per la svolta epocale della nostra Chiesa. Si tratta del grande itinerario di preparazione al Giubileo dell’Anno Duemila. La coincidenza di eventi ecclesiali, letta nell’ottica della fede, è sempre provvidenziale, cioè sempre segnata dal dito di Dio (digitus Dei est hic) che in ultima analisi guida le sorti di ogni Chiesa e segna il cammino di fede di ciascuno.

Questa premessa nell’ottica della fede dice che l’atteggiamento giusto di fronte alla coincidenza di cammini apparentemente contrastanti, ma in realtà complementari, deve essere quello di soddisfazione per l’ulteriore opportunità offerta, che diventa aiuto indispensabile e insostituibile, per il cammino e l’esperienza che andiamo ad iniziare.

Ciò che decidiamo non si affianca a ciò che Dio ha deciso per noi, tramite il respiro della Chiesa universale. Ciò che è frutto della nostra creatività viene assunto dalla e nella iniziativa di Dio che gratuitamente, ancora una volta, viene incontro alle nostre intenzionalità, e in qualche modo, le inserisce nel grande mistero della storia della Chiesa. Il cammino in preparazione al Giubileo si fa aiuto e proposta alla nostra Chiesa che percorre la strada del sinodo.

Il sinodo, per sua natura, è esperienza di lettura, analisi, verifica ed esame, programmazione, correzione, revisione, aggiornamento, attualizzazione dell’essere Chiesa nella contemporaneità di questo momento storico che chiude il secondo millennio cristiano e apre il terzo.

Al di là delle caratterizzazioni specifiche che lo connoteranno, di certo ci aiuterà a riscoprire il nostro essere Chiesa nelle sue coordinate fondamentali che sono l’annuncio, la celebrazione e la testimonianza del servizio.

Il Giubileo incrocia la vita della comunità segnandola con la sua ricca valenza. Il cammino trinitario che il Papa ha proposto nella Tertio Millennio Adveniente (= TMA) secondo i tre anni che si ritmano sulle tre virtù teologali e i Sacramenti del battesimo, della confermazione e della penitenza, sussidiata da indicazioni di specifici contenuti biblici e magisteriali, sotto lo sguardo benevolo e intercedente della Vergine Maria, è il cammino di sempre di ogni Chiesa.

Non è difficile (ma saranno scelte che andremo a fare nell’ambito degli organismi sinodali) ipotizzare il nostro cammino sinodale seguendo i tre anni di preparazione giubilare (Trinità, virtù, liturgia: fede creduta, vissuta, celebrata), perché è su contenuti concreti, nella vita cioè concretamente vissuta, che la nostra Chiesa verifica se stessa, analizza, progetta.

La nostra Chiesa dovrà procedere nel suo cammino di preparazione giubilare, ben convinta che, facendo tale cammino e grazie ad esso, guarda se stessa, si mette in discussione, si confronta col mondo, cambia rotta (se necessario), progetta, programma, attualizza la natura del suo essere Chiesa-comunione, come è intrinseco allo stesso impegno giubilare.

Da un punto di vista pratico-operativo alcuni inevitabili problemi possono essere risolti con un minimodi coordinamento e di sapiente buon senso.

Nelle indicazioni e proposte contenute nella TMA è il Papa in persona a suggerirci che tutto va calato nell’esistente. L’itinerario giubilare non chiede l’azzeramento o lo sfratto: nel già operante e nell’esistente della vita di fede della comunità, interviene e si inserisce il cammino giubilare con i suoi temi; dentro questa linfa che scorre con i suoi tempi nel vivo della comunità è vigile la coscienza sinodale con i suoi interventi, le sue fasi, i suoi sussidi, le sue strutture. La vigilanza è la preoccupazione di attuare le finalità del sinodo, per riformare e rifondare, se necessario, ciò che appare degno di cambiamento.

Perché, insomma, la prospettiva sinodale non si presenti come semplice ed estrinseca operosità, ma si caratterizzi come animus, “spirito”, atteggiamento fondamentale interiore, è indispensabile la maturazione di questa “preoccupazione” e “vigilanza”.

Il 1986 è l’anno di nascita della nostra Chiesa di Termoli-Larino. Le due antiche Diocesi di Termoli e di Larino, con la loro lunga tradizione di fede, di martiri, di vita cristiana fondendosi, non hanno cancellato la loro storia, ma sono state – e sono – chiamate a metterla in comune. I nostri primi dieci anni non sempre sono stati vissuti esprimendo ricchezza di testimonianza fraterna e di esperienza di condivisione, segni di vera e autentica comunione che nascono e crescono solo quando affondano le loro radici nella comunione profonda di Dio piuttosto che affidarsi a disposizioni legislative. Abbiamo insieme, tante volte, coltivato il sogno di nuove prospettive, di nuovi itinerari, ma altrettanto spesso abbiamo sperimentato sofferenze e ritardi che siamo chiamati a risanare e colmare.

La nuova realtà diocesana dovrà trovare nell’itinerario sinodale una spinta più decisa per un cammino che, evitando le secche della nostalgia – che spesso portano a volgersi al passato – e lasciandosi afferrare dalle ali della speranza, sappia essere segno e strumento di un “andare insieme” verso nuovi traguardi pastorali e innovative esperienze di vita comunitaria.

La visita pastorale è stata occasione per “bussare alla porta” di ciascuno di voi, per incontrare ogni comunità parrocchiale, per mettermi in ascolto delle attese e dei desideri, per farmi carico dei problemi, per verificare il cammino che la nostra Chiesa locale ha percorso dopo il Concilio.

Accanto a tanti traguardi raggiunti, a tanti itinerari intrapresi, non ho potuto non rilevare anche i ritardi: il manifestarsi di una pastorale ancora chiusa in se stessa, ambiti non ancora raggiunti, né messi a tema nell’agenda del nostro agire.

È ora il tempo che i tanti rivoli di rinnovamento presenti nella nostra Diocesi confluiscano nel fiume del rinnovamento comune, che i tanti sentieri solitari diventino cammino comune.

Nell’Omelia a conclusione della visita pastorale del 19 luglio 1993 manifestai il desiderio e l’intenzione di avviarci verso l’esperienza sinodale con queste parole: «La vocazione della Chiesa, quella dei discepoli, è un andare sempre incontro al Signore camminando tra e nella storia per irrorarla colla carità che fa di questa realtà il luogo privilegiato dell’avvento di Dio che è salvezza. Così, dopo aver lungamente pregato, cogliendo accenni e desideri di molti fratelli presbiteri, voglio manifestare a tutti voi un desiderio che interpreta l’attesa di tanti.

La nostra Chiesa sarà chiamata a celebrare il sinodo: cammineremo insieme per vivere l’esperienza più significativa della comunione diocesana.

Ora mi premeva darne il primo annuncio: il Signore e le necessarie e comuni valutazioni, ci indicheranno i tempi e i modi per la sua indizione e celebrazione»[16].

Nel 50 anniversario del rinvenimento delle reliquie di S. Timoteo (1945-1995) Giovanni Paolo II ha fatto dono alla nostra Chiesa di una Lettera autografa, in cui ci ricorda che il conservare le reliquie del discepolo prediletto di Paolo non può costituire per noi solo motivo di vanto, ma ulteriore motivo per riscoprire continuamente il nostro compito di chiesa missionaria. In essa è possibile ravvisare l’urgenza e la necessità del cammino sinodale che si salda col grande impegno per una “nuova evangelizzazione” che “sola può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda”.

Questa urgenza emerge dalle parole del messaggio di Giovanni Paolo II alla nostra Chiesa laddove scrive: «La ricorrenza giubilare (di S. Timoteo) costituisce un momento importante per codesta comunità diocesana chiamata, sulle orme del Santo Patrono, a rinnovare la sua fedeltà al Vangelo, per essere anche oggi segno luminoso dell’amore di Dio che salva»[17].

L’invito che ci viene rivolto dal Santo Padre e la lettura attenta della realtà della nostra Chiesa, chiamata ad annunziare il Vangelo in questo particolare momento della storia che chiude un millennio e sta per aprirsi a una nuova stagione gravida di attese e di interrogativi, fanno emergere alcune urgenze alle quali siamo chiamati, vescovo, presbiteri e laici, a dare riscontri di impegno e di operosità.

Sbocco quasi naturale della celebrazione di un Sinodo è la promulgazione di un piano pastorale. In questi anni non sono mancate indicazioni pastorali per la nostra vita diocesana. Esse sono emerse e dalla celebrazione dei convegni pastorali annuali e dalle linee pastorali offerte alle comunità. Sentiamo però la necessità che proprio attraverso il Sinodo, «modo peculiare di esercizio della responsabilità, che concerne tutti i fedeli, nell’edificazione del Corpo di Cristo»[18], possa essere offerta una ordinata, chiara e attenta linea pastorale alla diocesi. Quel volto nuovo di chiesa che insieme ricercheremo non può restare solo a livello di una pur valida ricerca; chiede, invece, di realizzarsi, di prendere forma attraverso l’impegno comune. Il piano pastorale, lungi dal voler mortificare i carismi di ciascuno, sarà quella strada comune che tutti percorreremo, indicandone i percorsi e gli strumenti, sobbarcandoci al necessario lavoro di verifica degli itinerari intrapresi, ma soprattutto assaporando la gioia del lavorare insieme per rendere, ogni giorno di più, accogliente e fraterna la chiesa del Signore.

Un’attenta analisi della nostra realtà è uno dei primi passi da compiere per poter avviare un serio lavoro di annuncio. Sappiamo tutti – pur in assenza di indagini socio-religiose riguardanti la nostra diocesi – dei profondi cambiamenti socioculturali che hanno inciso notevolmente e in profondità sul nostro territorio in questi ultimi anni. A volte sembra di poter dire di essere di fronte al risultato di una sorta di violenza operata sulla sua originaria vocazione e destinazione e di avere dinanzi una immagine artificiosa ed innaturale di esso. Si pensi al fenomeno dell’industrializzazione della fascia costiera con il conseguente abnorme sviluppo della città di Termoli che accoglie sul suo territorio pluralità e diversità di esperienze, culture, tradizioni.

Di sicuro questa nuova situazione e l’offerta, fino a qualche anno fa, di insperate e nuove possibilità occupazionali hanno contribuito alla desertificazione in termini demografici della vasta zona interna del territorio diocesano con una larga fascia di anziani quasi costretti a garantire e a presidiare il territorio abbandonato dalla popolazione più giovane.

Ora siamo alle prese, con punte  preoccupanti a livello giovanile, con il dramma della disoccupazione e con l’aumento di famiglie che corrono il rischio d i cadere – molte sono già dentro, purtroppo – nel buco nero della miseria.

Ma accanto a questi problemi, non meno gravi sembrano essere: la disaffezione verso la “cosa pubblica”, l’emergere di fenomeni di microcriminalità che gettano tristi ombre su questo territorio fino a poco tempo fa definito “isola felice”, ed una sorta di “apatia esistenziale” che porta, soprattutto le giovani generazioni, a vivere in una specie di “sala di attesa” di un futuro e di un domani che altri dovranno offrire loro.

Questi problemi non possono essere lontani dal cuore della comunità ecclesiale: sono le nostre ansie e le nostre domande quotidiane, pur nella consapevolezza che la loro soluzione percorre altre strade ed incrocia scelte e programmi di competenza altrui.

 

 

UNA CHIESA DA “COSTRUIRE INSIEME”

 

 

 

La novità delle situazioni che siamo chiamati a vivere, – nelle quali leggiamo l’azione dello Spirito Santo che continuamente sospinge la Chiesa nel corso del tempo – chiedono a noi, chiesa di Termoli-Larino, di vivere un’esperienza particolarmente significativa per la nostra storia: il sinodo diocesano.

In questa seconda parte cercheremo, alla luce dei documenti del Magistero, della riflessione teologica e facendo tesoro dell’esperienza maturata in questi anni da parte di altre chiese locali, di illustrarne la natura, di indicarne lo svolgimento e di lasciar intravvedere i risultati che, con l’aiuto dello Spirito, tale evento dovrà produrre per la nostra Chiesa.

 

 

 

Guidati dallo Spirito

 

 

Non possiamo non leggere la provvidenzialità nella coincidenza dell’avvio del nostro itinerario sinodale con la celebrazione del secondo anno di preparazione al Giubileo dell’anno 2000, anno dedicato allo Spirito Santo. «Lo Spirito, infatti, – scrive la TMA – attualizza nella Chiesa di tutti i tempi e di tutti i luoghi l’unica Rivelazione portata da Cristo agli uomini  rendendola viva ed efficace nell’animo di ciascuno: Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre vi manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto (Gv 14,26)[19].

Lo Spirito, che «costruisce il Regno di Dio nella storia»[20], spinge la nostra Chiesa, attraverso la scelta e l’impegno del Sinodo, a far emergere dalla memoria ciò che si è compiuto per opera sua «nella pienezza del tempo».

È indubbio che una Chiesa chiamata a camminare insieme in tutti i suoi membri non può non desiderare e tendere all’esperienza di una comunione che, poiché non è fondata sulla carne o nel sangue, non è altro che dono e avvenimento dello e nello Spirito.

È questo Spirito che ci fa tutti discepoli pronti ad ascoltare Cristo Gesù e impegnati ad andare per l’annunzio del Vangelo. Discepoli che camminano verso l’esperienza della comunione con le loro diversità che non vengono annullate ma riconosciute nella loro originalità e specificità dando però il primato a ciò che è comune.

«Nella comunione ecclesiale tutti si è portatori di segni dello Spirito, tutti di doni per il discernimento che è intelligenza del concreto»[21].

Il sinodo sarà per la nostra Chiesa una scuola di attenzione allo Spirito, di disponibilità e di accoglienza alla sua azione tesa alla valorizzazione dei diversi carismi nella comunione, attraverso l’esercizio della carità.

 

 

 

Il sinodo diocesano

 

 

Il termine si nodo non è certo una parola che usiamo comunemente nel nostro linguaggio, né troviamo, nel mondo civile, esperienze che possano essere ricondotte a questo termine. Esso affonda le sue radici nell’esperienza dei primi secoli della Chiesa e la parola “sinodo” non è altro che il termine greco svn-odos, in latino synodus, che può essere tradotto come un “camminare insieme”, “cammino fatto insieme”; questo suo primo e immediato significato ci orienta già verso la giusta direzione:ognuno vive e opera insieme agli altri per un fine comune.

Troviamo una definizione del sinodo nel Codice di diritto Canonico che al can. 460 definisce il Sinodo diocesano come l’assemblea dei Sacerdoti e degli altri fedeli della Chiesa particolare,scelti per prestare aiuto al Vescovo diocesano in ordine al bene di tutta la comunità diocesana. Pur nella stringatezza e forse freddezza del linguaggio, emergono alcune caratteristiche che denotano la novità di questa istituzione.

Il recente documento riguardante i sinodi diocesani, quasi sciogliendo il linguaggio giuridico in un afflato di comunione, scrive:

«Il sinodo è, contestualmente e inseparabilmente, atto di governo episcopale ed evento di comunione, esprimendo così quell’indole di comunione gerarchica che appartiene alla natura profonda della Chiesa. Il Popolo di Dio non è, infatti, un aggregato informe dei discepoli di Cristo, bensì una comunità Sacerdotale, organicamente strutturata fin dall’origine conformemente alla volontà del suo fondatore, che in ogni diocesi fa capo al vescovo come principio visibile e fondamento dell’unità e unico suo rappresentante»[22].

Quest’assemblea del popolo di Dio attorno al Vescovo «come principio visibile e fondamento dell’unità», esercita il diritto/ dovere di esprimersi, di far conoscere il proprio parere in ordine al bene della Chiesa, quale singolare e qualificata espressione della partecipazione di ogni sinodale all’ufficio profetico del Cristo.

Si va facendo strada nel percorso del cammino sinodale di tante Chiese il termine “sinodalità” che in parole povere vuole essere «una comunione regolata da norme precise che si fa visibile, nel rapporto fraterno fra i membri della Chiesa» (Mons. Magrassi).

Una definizione più articolata che ne indichi anche i caratteri distintivi è la seguente: «Un’assemblea organicamente strutturata – gerarchicamente organizzata – con lo scopo di formulare insieme, con l’aiuto dello Spirito Santo, un consenso che esprime la comunione nella confessione dell’unica fede […]. Nessuno agisce isolatamente, ma ciascuno deve piuttosto agire solidalmente. In tal modo ciascuno diventa presente nell’atto dell’altro»[23].

Quando questo atteggiamento, questo stile di sinodalità entra nel vissuto di una Chiesa locale, allora possiamo dire che si esprime anche in modo visibile «l’unione organica e interdipendente tra il Vescovo e la sua Chiesa».

La definizione del Codice di Diritto Canonico interpretata alla luce della dottrina della Lumen gentium, presenta il rapporto Vescovo-Sinodo come espressione di comune partecipazione alla ministerialità della Chiesa la quale ha nel Vescovo, che possiede in pienezza il Sacramento dell’ordine, il «fondamento dell’unità», nei presbiteri i suoi primi e necessari collaboratori, nei fedeli laici, da lui convocati, l’espressione della loro partecipazione al munus regale, «nella comune ricerca di ciò che lo Spirito chiede nel momento presente alla Chiesa particolare».

L’aiuto che una Chiesa convocata in sinodo presta al suo Pastore passa attraverso l’ascolto e la riproposizione delle tante voci del mondo: una Chiesa che sa accogliere, rispettare, valorizzare è una Chiesa che vive il suo rapporto con il mondo non in maniera conflittuale o neutrale ma dialogando con esso.

È un aiuto che vuole ricordare che nell’ambito più proprio e qualificato per la proposizione, formulazione e promulgazione del complesso di norme e di leggi per la Chiesa locale, il Vescovo nell’esercizio del suo potere “regale”, non è isolato dalla coralità ecclesiale.

Egli, con l’aiuto dei ministeri, dei doni, dei carismi presenti e operanti nella Chiesa di cui è Pastore, sintetizza e con la sua potestà episcopale fa sì che i frutti della saggezza e della “competenza” di tutto il popolo di Dio da lui interpretati, vagliati, animati e portati a maturazione, diventino norme vincolanti per il prosieguo del cammino della Chiesa che lo Spirito gli ha affidato.

Scopo e fine ultimo del Sinodo:«il bene di tutta la comunità diocesana».

Quale è il bene di tutta la comunità diocesana? La recente e già citata Istruzione sui Sinodi Diocesani individua questo bene nella comunione e nella missione, in quanto aspetti inscindibili dell’unico fine dell’attività pastorale della Chiesa.

«I lavori sinodali mirano a fomentare la comune adesione alla dottrina salvifica e a stimolare tutti i fedeli alla sequela di Cristo. Poiché la Chiesa è “inviata al mondo ad annunziare e testimoniare, attualizzare ed espandere il mistero di comunione che la costituisce”, il sinodo cura anche di favorire il dinamismo apostolico di tutte le energie ecclesiali sotto la guida dei legittimi Pastori. Nella convinzione che ogni rinnovamento comunionale e missionario ha come indispensabile premessa la santità dei ministri di Dio, non dovrà in esso mancare un vivo interessamento per il miglioramento del costume di vita e della formazione del clero e per lo stimolo delle vocazioni»[24].

Chiesa-comunione e Chiesa-missione sono le due grandi coordinate che dovranno intersecare e autenticare tutto il lavoro sinodale.

Sperimenteremo lungo l’itinerario sinodale “l’ospitalità nell’amore”, che è cammino di comunione. Esso dovrà condurre alla maturazione di stili di vera accoglienza reciproca e di autentica collaborazione pastorale in cui la diversità non è più vista come ostacolo ma come fonte di reciproco arricchimento e di vicendevole edificazione.

E poiché “la comunione genera comunione”, essa non può che configurarsi come “comunione missionaria”.

«È sempre l’unico e identico Spirito colui che convoca e unisce la Chiesa e colui che la manda a predicare il Vangelo “fino agli estremi confini della terra”(At 1,8). Da parte sua, la Chiesa sa che la comunione, ricevuta in dono, ha una destinazione universale. Così la Chiesa si sente debitrice all’umanità intera e a ciascun uomo del dono ricevuto dallo Spirito che effonde nei cuori dei credenti la carità di Gesù Cristo, prodigiosa forza di coesione interna ed insieme di espansione esterna.»[25].

Il nostro Sinodo, partendo da uno sguardo sulla nostra Chiesa, avvertirà la forza del dono di cui è debitrice al Signore che la fa destinataria del suo amore e impronta visibile della comunione trinitaria che è una “missione” continua:

da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso ma Lui mi ha mandato (Gv 8,42).

Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra (At 1,8).

Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli vi insegnerà ogni cosa (Gv 14,26).

Per noi credenti non esiste il caso, noi non parliamo di coincidenze fortuite. Parliamo di momenti favorevoli (kairòs = tempo opportuno), di circostanze provvidenziali. E così non possiamo non leggere nell’ottica dei tempi provvidenziali, dei momenti stabiliti da Dio, il grande segno della “missione” che la nostra Chiesa – in forza della comunione provocata dallo Spirito e del desiderio e dell’anelito che Cristo Gesù sia annunziato e la sua salvezza raggiunga gli estremi confini della terra – sta vivendo con consapevole e diretto coinvolgimento proprio all’inizio del percorso sinodale, con l’invio di due nostri giovani Sacerdoti d. Matteo Iammarino, attualmente parroco della Parrocchia S. Maria delle Rose in Bonefro e Direttore della Caritas Diocesana, e d. Antonio Franco Lalli, parroco della Parrocchia S. Maria Ester in Acquaviva Collecroce, nella diocesi di Doba in Tchad (Africa).

Il gesto di generosa solidarietà nella fede che la nostra Chiesa compie e l’offerta pronta e disponibile dei nostri due Sacerdoti che danno cinque anni del loro ministero Sacerdotale alla Chiesa di Doba, povera di mezzi e di Sacerdoti, ma ricca di fede entusiasta, saranno veramente una profezia che la nostra Chiesa non lascerà cadere o spegnersi al consumarsi dei facili iniziali entusiasmi.

L’impegno e il sostegno alla Chiesa del Tchad ci aiuteranno non solo a vivere l’urgenza della nuova evangelizzazione ma anche a non sottrarci alla missione permanente di portare il Vangelo a quanti – e sono milioni e milioni di uomini e di donne – ancora non conoscono Gesù Cristo Redentore dell’uomo[26].

L’esperienza del Sinodo si situa nella storia di una Chiesa locale nella categoria della straordinarietà. Esso non è un atto che si celebra ogni anno o a scadenze fisse.

Il Codice di Diritto Canonico del 1983, recependo la riflessione e la dottrina ecclesiologica del Concilio Vaticano II, affida alla responsabile e illuminata valutazione del Vescovo la decisione della celebrazione. Ne parla il can. 416, § 1: «Il sinodo diocesano si celebri nelle singole Chiese particolari quando, a giudizio del vescovo diocesano e sentito il parere del consiglio presbiterale, le circostanze lo suggeriscono». Non ci sono quindi tempi o scadenze rigide.

Il decreto conciliare Christus Dominus usa un’espressione che sottolinea l’obbligo morale che investe un dovere giuridico pastorale del Vescovo: «questo Santo Sinodo desidera che questa veneranda istituzione riprenda nuovo vigore»[27].

Certo si tratta di un atto importante e doveroso del ministero episcopale al quale bisognerà accedere con un lungo e previo cammino di preghiera e di riflessione.

La convocazione del sinodo «è un atto di una importanza eccezionale per una iniziativa straordinaria della vita della diocesi, che non appartiene alla cronaca, ma alla storia […]. Proprio per questo il Codice carica di responsabilità la decisione del Vescovo e ne specifica le condizioni. Non fissa scadenze precise: è la realtà che deve suggerire l’indizione del Sinodo. E la realtà va colta in tutte le sue sfaccettature»[28].

C’è l’inciso «sentito il parere del consiglio presbiterale» che sottolinea fin dall’inizio lo stile comunionale che dovrà caratterizzare il sinodo in tutto il suo cammino. Un autorevole canonista scrive: «(il sinodo) è un atto che coinvolge sia il potere di governo sia il potere legislativo, proprio della potestà episcopale. Il vescovo, come apostolo della sua Chiesa particolare, chiama alla collaborazione per un tracciato disciplinare che apra al futuro»[29].

In verità, l’idea di indire il sinodo è nata nel silenzio della preghiera, ma per non disattendere lo stile di corresponsabile comunione ho voluto che tale scelta maturasse lentamente come impegno comune; per questo ne ho fatto oggetto di riflessione insieme con il Consiglio Presbiterale, l’Assemblea Presbiterale, le zone pastorali e il Consiglio Pastorale Diocesano.

In tanti (soprattutto in ambito presbiterale) hanno fatto fatica, manifestando apprensioni, perplessità, disagio, inopportunità per sovrapposizione di impegni. Altri hanno fatto una disamina diversa. Valga una testimonianza per tutte: «Forse l’indizione imminente “costringe” ad una lavoro più che “chiamare” ad un lavoro. Ma già questo soggetto ecclesiale, il Consiglio Presbiterale, è chiamato ad essere il primo a farsi carico di questa volontà sinodale espressa dal Vescovo e fissata già avanti a noi come cammino da percorrere. Se, come papa Giovanni non chiese il parere “sul” Concilio da indire, non poté fare a meno della presenza e della collaborazione di tutta la Chiesa per realizzare il Concilio, anche noi siamo chiamati a metterci, con i doni che Dio ci ha dato, disponibili ad intraprendere questo cammino indicatoci. Sarà un cammino di grazia, se è vero che il Signore è dove sono i suoi convocati!».

Per altro verso devo riconoscere che all’iniziale e forse giustificato punto interrogativo sono seguiti attenzione, interesse, coinvolgimento, propositività. Nel mio itinerario quaresimale, in dodici incontri interparrocchiali con i collaboratori, i catechisti, gl i operatori pastorali, ho dialogato sul Sinodo con oltre un migliaio di persone; ho toccato con mano attese, speranze, entusiasmo e volontà di coinvolgersi in prima persona nel tempo di grazia che la nostra Chiesa è chiamata a vivere nella stagione sinodale.

In molti hanno visto nella proposta sinodale la grande opportunità di rivedere il nostro cammino a fronte di un senso di sfiducia e di ristagno e la possibilità, attraverso il lavoro che vede insieme laici e presbiteri come non mai, di poter edificare una vera comunità dei discepoli del Signore.

Tra gli interrogativi alcuni ritornavano con una certa insistenza. È il caso di ricordarli come appello e come sfida:

 

Riusciremo a camminare insieme?

Ad incontrare e ad ascoltare tutti?

Raggiungeremo i lontani?

I giovani saranno con noi?

La presenza dei laici sarà finalmente accolta nella Chiesa non come semplice partecipazione, ma come matura corresponsabilità?

Come ben sapete, l’essere parte del Collegio Episcopale concorre a stabilire rapporti fraterni e cordiali tra i membri di questo Collegio. I rapporti sono arricchiti dal mettere in comune doni, esperienze, iniziative che sono la ricchezza della vita delle Chiese particolari.

È evidente, credo, a tanti di voi, che un Vescovo che si accinge a celebrare con la sua Chiesa il Sinodo, chiede, s’informa, domanda ai confratelli che hanno vissuto o stanno vivendo questa esperienza di comunione ecclesiale, notizie, sussidi, documentazione.

Così sto facendo anch’io aggiungendo all’esperienza che ho vissuto – negli anni 1985-‘89come – Segretario generale aggiunto del Sinodo, nella mia diocesi di origine di Manfredonia-Vieste, la documentazione e l’esperienza di molte chiese italiane.

E così osservo esperienze diversificate anche nel campo della partecipazione, avendo però ben presente la normativa canonica a cui ispirarmi in questo campo.

Parlando di partecipazione dei membri mi sembra di poter parlare di un duplice livello di diversa, ma comunque rilevante, importanza.

Il primo livello coinvolge e riguarda la Chiesa tutta, quella che S. Cipriano chiama plebs universa. Poiché il Sinodo è un “camminare insieme”, nessuno nella fase della progettazione e della preparazione deve essere escluso, nessuno si deve escludere. Singoli fedeli laici, comunità parrocchiali, religiosi/e, gruppi, movimenti, associazioni, il mondo socioeconomico in tutte le sue accezioni e competenze, la cultura nelle sue multiformi espressioni, le associazioni di volontariato, il grande, inesplorato, assente “mondo dei lontani”…

Questa fatica del “coinvolgere” tutti sarà, da un lato, un segno del superamento di quella visione di Chiesa, che ancora – purtroppo – sembra trovare posto nell’agire di tanti, troppo centrata sul clero che conduce a vedere l’evento del sinodo come un’opera di “tecnici ecclesiastici” chiamati a tracciare linee disciplinari o ad aggiornare la legislazione; dall’altro sarà la strada da percorrere perché l’evento sinodale diventi una vera celebrazione ecclesiale, evento di una chiesa intera.

Spetterà a coloro che avranno la responsabilità di portare avanti l’organizzazione per la sensibilizzazione e la mentalizzazione del Sinodo proporre iniziative che creino ascolto, attivino raccolta di contributi, suscitino fiducia e interesse attorno a questo avvenimento.

La cura e l’intelligenza con cui si perseguirà l’obiettivo di una simile partecipazione saranno un banco di prova perché al Sinodo giungano e siano accolte non soltanto le voci di “quelli che sono dentro la casa” ma anche le voci di “quelli di fuori”.

Il secondo livello riguarda i membri dell’Assemblea sinodale (potremmo indicarli col termine “sinodali”), coloro che celebreranno e in qualche modo saranno gli “artefici del Sinodo”.

Sulla scorta delle indicazioni della legge della Chiesa e delle ulteriori precisazioni della già più volte citata e recente Istruzione sui Sinodi Diocesani, l’Assemblea Sinodale sarà composta dai membri di diritto: coloro che partecipano all’assemblea sinodale in forza dell’ufficio che ricoprono (il vicario generale, i vicari episcopali, il vicario giudiziale, i canonici della Chiesa cattedrale, i membri del Consiglio Presbiterale, i vicari foranei), dai membri eletti: laici, presbiteri e religiosi designati secondo un Regolamento approvato dal Vescovo; dai membri designati: chiamati dal Vescovo a far parte dell’Assemblea sinodale ed, infine, dagli osservatori, rappresentanti di altre confessioni religiose.

Questa composizione sarà ulteriormente chiarita nel Regolamento generale del Sinodo. L’essere “membro” dell’Assemblea Sinodale è un fatto “personale” e pertanto non è delegabile anche in caso di legittimo impedimento.

Perciò la scelta sarà fatta non soltanto in base alla competenza e alla buona e sicura testimonianza di vita cristiana, ma anche non sottovalutando la disponibilità degli eletti o designati al lavoro e al tempo necessario per le Assemblee Sinodali.

 

ESAMINARE TUTTO E RITENERE CIÒ CHE È BUONO

 

 

 

Quale sinodo?

Ogni evento che coinvolge e anima la vita di una Chiesa particolare chiamandola a verificare il grado e la qualità della sua fedeltà al Vangelo, suscita degli interrogativi, crea delle attese, motiva delle perplessità. Muove anche l’impegno e il coinvolgimento di tanti. Molti, legati a una visione tradizionale e standardizzata del lavoro e della distribuzione di compiti e responsabilità all’interno della nostra comunità ecclesiale, pensano che anche “l’evento del sinodo diocesano”, riguardi i soliti pochi, privilegiati, addetti ai lavori (vescovo, presbiteri, religiosi/e, qualche laico).

In realtà questo avvenimento particolare della vita e della storia di una Chiesa si presenta come una occasione favorevole e per certi versi rivoluzionaria: la crescita e la maturità del popolo di Dio non sono solo un traguardo da raggiungere (scopo del sinodo) ma ne diventino l’itinerario e il cammino. In tutto il suo svolgersi – dall’indizione alla promulgazione degli atti sinodali – il sinodo deve diventare esperienza di comunione, di condivisione e di corresponsabilità perché possa risultare evidente la sua finalità prioritaria che è quella di offrire «al Vescovo l’occasione di chiamare a cooperare con lui, insieme ai Sacerdoti, laici e religiosi tutti, come un modo peculiare di esercizio della responsabilità, che concerne tutti i fedeli, nell’edificazione del Corpo di Cristo»[30].

La coralità ecclesiale che il Sinodo riuscirà ad esprimere e a far vivere non può, soprattutto perché questa esperienza è vissuta per la prima volta, almeno nella legislazione recente della Chiesa e nella nuova, giovane configurazione della nostra diocesi, non può che essere una disamina, a tutto campo, della vita e della missione della Chiesa oggi.

Il nostro Sinodo non sarà pertanto monotematico, ma affronterà tutti gli ambiti della missione e della pastorale che la Chiesa di Termoli-Larino è chiamata a vivere alla luce della Parola di Dio, del magistero della Chiesa universale e particolare, raccogliendo, con acume e discernimento, sfide, provocazioni, istanze, domande, speranze dell’uomo, alle soglie del nuovo millennio.

Sarà un sinodo che, servendosi degli strumenti che fanno parte della “grande disciplina della chiesa” e che la incarnano nelle strutture necessarie e indispensabili all’homo viator, ci aiuterà a

 

– rinnovare la nostra fedeltà al Vangelo;

– reinserirci con competenza, rispetto, convinzione, amore e simpatia nella realtà in cui il Signore ci           ha chiamati ad operare; progettare il tratto di strada che ci è davanti con strumenti sicuri di     programmazione, per evitare, nella incertezza e fumosità di progetti improvvisati, di smarrire la    dritta via.

 

 

 

Il discernimento comunitario

Il Sinodo per sua natura non è chiamato a trattare temi di fede e di dottrina, la sua funzione riguarda l’agire pastorale della Chiesa locale. È occasione per rinnovare il volto della propria comunità diocesana.

È porsi lì dove la fedeltà a Dio è chiamata ad incrociare la fedeltà all’uomo: in questo incrocio si pone la storia concreta dell’amore, si “gioca” il nostro impegno.

Il Convegno di Loreto ha dato un nome a tutto questo e ha rilanciato uno stile: il discernimento.

Cosa significa discernere? Significa fondamentalmente, riconoscere la complessità del nostro oggi, la problematicità del nostro vivere, le tensioni che accompagnano le nostre scelte. Significa, più semplicemente, rispondere a queste domande: Cosa vuole il Signore da noi oggi? Cosa chiede alla nostra Chiesa per rispondere all’appello dei tanti che ancora oggi cercano “salvezza”? Quali sono le priorità che dobbiamo discernere, i traguardi essenziali che dobbiamo additare, i sentieri di impegno che è urgente percorrere, i nuclei vitali che bisogna salvare dal naufragio, le zavorre che occorre mollare?

Questo atteggiamento comunitario che ci è vivamente raccomandato dalla Chiesa[31] come «espressione dinamica della comunione ecclesiale e metodo di formazione spirituale, di lettura della storia e di progettazione pastorale»[32], trova nell’esperienza del sinodo diocesano una sua particolare espressività, a patto che, sfuggendo alle tentazioni di “impropri democraticismi e sociologismi”, venga vissuto come «docilità allo Spirito e umile ricerca della volontà di Dio; ascolto fedele della Parola; interpretazione dei segni dei tempi alla luce del Vangelo; valorizzazione dei carismi nel dialogo fraterno; creatività spirituale, missionaria, culturale e sociale; obbedienza ai Pastori, cui spetta disciplinare la ricerca e dare l’approvazione definitiva»[33].

 

 

 

In ricerca con il vescovo

«La finalità del Sinodo è quella di prestare aiuto al Vescovo nel\’ esercizio della funzione chegli è propria, di guidare la comunità cristiana [H’]’ Il Sinodo è, ‘contestualmente e in_eparabilmente atto di governo episcopale ed evento di comunione, esprimendo così

quell’indole di comunione gerarchica che

appartiene alla natura profonda della Chiesa»[34].

Le parole del citato documento, in modo particolare la sottolineatura del Sinodo come “atto di governo ed evento di comunione”, da una parte ci mettono in guardia dal rischio di intendere l’autorità del Vescovo in modo verticistico e perciò parziale, e dall’altra ci offrono la possibilità di aprire uno spazio ampio e teologicamente fondato all’esercizio del profetismo (il munus propheticum) del popolo di Dio.

È certo che nessun atto può ritenersi “sinodo” se non è adottato in comunione con il Vescovo al quale soltanto spetta l’ultima decisione che non è presa tuttavia, nella grande e vuota solitudine delle dimore episcopali, al di fuori della “coralità ecclesiale” o in contrapposizione ad essa che viene, invece, verificata, non «quasi fosse una mera consulenza esterna espressa da chi non ha alcuna responsabilità sull’esito finale del sinodo: con le loro esperienze e i loro consigli, i sinodali collaborano attivamente nell’elaborazione delle dichiarazioni e dei decreti che verranno giustamente chiamati sinodali»[35].

Certo non si può pensare di trasferire in modo meccanico e ripetitivo in questo alto e significativo momento della vita di una Chiesa particolare che è il Sinodo, le regole e la prassi in uso nelle democrazie rappresentative: quel che si richiede è di vivere fino in fondo lo stile di comunione.

Nel can. 466, dopo che si è detto che nel Sinodo il Vescovo è l’unico legislatore, si afferma che «gli altri membri del Sinodo hanno solamente voto consultivo». Una distorta e civilistica lettura di questo termine ha creato un fiume di distinguo, di interpretazioni, di esagerate e unilaterali accentuazioni.

Prendo in prestito dalla riflessione e dalla sapienza e saggezza di due miei confratelli vescovi la presentazione e interpretazione del termine “consultivo”. Mons. Valentino Vailati, nella Lettera di indizione del sinodo diocesano di Manfredonia-Vieste, così scriveva: «Il termine consultivo deve essere accolto e meditato nel suo significato teologico e più precisamente ecclesiologico. Ci si accorgerà che il termine “consultivo” non esprime una limitazione, ma piuttosto riconosce la corresponsabilità di tutti i fedeli nella vita della Chiesa, secondo la misteriosa ma reale distribuzione dei doni dello Spirito»[36].

Mons. Mariano Magrassi, Arcivescovo di Bari-Bitonto, dal canto suo, afferma: «Il diritto di voto comporta un’assunzione di responsabilità nelle decisioni. La sua natura consultiva mira a salvaguardare la responsabilità personale e unica del vescovo, ma non diminuisce la responsabilità e la forza della partecipazione. C’è un momento in cui “si costruisce” la decisione. E questo lo fanno tutti. C’è un momento in cui “si prende la decisione”: e questo può farlo solo il vescovo. Non è dunque il voto consultivo una sottile turlupinatura o una forma peregrina di partecipazione, perché come recita il can. 127,12: “Il Vescovo senza una ragione prevalente, da valutarsi a suo giudizio, non si discosti dal voto delle stesse persone consultate, specialmente se discorde” […] Quando c’è un ascolto vero delle persone, nella prassi concreta la differenza tra voto consultivo e deliberativo, se non salta, almeno si stempera»[37].

La natura consultiva del voto, dunque, mira soltanto alla salvaguardia della responsabilità personale ed unica del vescovo, la quale è irrinunciabile, ma non diminuisce la serietà e l’importanza della partecipazione degli altri membri dell’assemblea sinodale. Si potrebbe utilmente ricorrere a un’altra maniera di articolare le funzioni interne al sinodo, distinguendovi il momento in cui “si prende” la decisione e quello in cui “si costruisce” la decisione. Il primo, che dà il carisma legale, è del vescovo, ma il secondo, che propone il contenuto della decisione, è di tutti i membri del sinodo insieme al vescovo.

Queste affermazioni ci conducono a comprendere e a valorizzare la dimensione più vera del consenso espresso attraverso il voto, che è quella di offrire un servizio alla Chiesa da costruire nella ministerialità, che ciascuno, secondo i carismi e doni ricevuti, vive a vantaggio e per la costruzione di una comunione più vera e visibile.

Il primo dato che non può sfuggi re per una retta lettura dell’evento “sinodo” è la consapevolezza che esso è un avvenimento dello Spirito e che pertanto tutti siamo chiamati a un atteggiamento di vigile obbedienza e di sereno e costante discernimento per non lasciar cadere invano i passaggi del Signore.

L’obbedienza allo Spirito, frutto di un sapiente discernimento, riguarda in particolare il Vescovo chiamato a esercitare il suo ufficio di legislatore promuovendo la responsabile partecipazione capace di esprimere «i frutti della saggezza e dei carismi di tutto il presbiterio, anzi dell’intero popolo di Dio, da Lui stesso animati e fatti crescere»[38].

Un Pastore che ha vissuto con la sua chiesa l’esperienza del Sinodo così descrive il suo ministero proprio: «vorrei che le mie parole cadessero sul Sinodo come un impeto di vento che tutto riempia creando il contesto in cui ciascuno riceverà il suo dono. L’intervento del vescovo non sostituisce le lingue di fuoco, che a ciascuno verranno date, ma vuole influire sul clima generale, vuole offrire l’orizzonte comune, il soffio e il calore che dovrebbe riempire la casa intera»[39].

Poiché «i lavori sinodali mirano a fomentare la comune adesione alla dottrina salvifica e a stimolare tutti i fedeli alla sequela di Cristo […], il sinodo cura anche di favorire il dinamismo apostolico di tutte le energie ecclesiali sotto la guida dei legittimi Pastori»[40].

Il “favorire il dinamismo apostolico di tutte le energie ecclesiali” compete al Vescovo che in tal modo arricchisce e invera la Chiesa che guida in nome e per autorità di Cristo, rendendola espressione sinfonica e multiforme della presenza e dell’azione dello Spirito, promuovendo una responsabile e corale partecipazione non di facciata o di semplice ascolto, ma di significativa importanza e rilievo in vista delle decisioni che, a conclusione dell’itinerario sinodale, andrà a prendere.

La promozione e l’attuazione di una effettiva corresponsabilità dell’intero popolo di Dio ha nel sinodo l’ambito più autorevole ed espressivo «grazie alla discussione fraterna, sincera vivace e libera, grazie alla disponibilità di tutti a convertirsi all’ascolto dello Spirito e grazie al ministero della sintesi che è carisma del Vescovo»[41].

L’autorità che deriva al Vescovo dall’essere «l’unico legislatore» (can. 466) non lo dispensa dal ricercare e promuovere la manifestazione della comunione che deve avere come sua espressione caratteristica il senso della unanimità che non può essere il risultato di una somma di suffragi ma l’evidenza di «un discernimento cresciuto attraverso l’apporto di tutti, i carismi di tutti, la maniera propria a ciascuno di vivere la vocazione del discepolo di Gesù»[42].

In questo senso l’autorità del Vescovo non è imposizione o solitudine di decisione o di comando, ma aderisce al senso etimologico più genuino e pregnante. Il Vescovo, non impone ma aiuta a crescere (auctoritas da augeo), a far emergere, attraverso una sua particolare mansione che è quella del discernimento, coloro che gli sono affidati dal Pastore supremo delle nostre anime.

«In questo modo la potestà episcopale viene attuata in conformità al suo significato autentico, e cioè non come imposizione di una volontà arbitraria, ma come un vero ministero, che comporta “ascoltare i sudditi” e “chiamarli a cooperare alacremente con lui nella comune ricerca di ciò che lo Spirito chiede nel momento presente alla Chiesa particolare»[43].

Dovrà essere questo lo stile che accompagnerà l’esperienza sinodale che il Signore dà da vivere alla nostra Chiesa: una ricerca costante per armonizzare nell’unico servizio al Regno la diversità di doni, carismi, competenze, responsabilità. Poiché è un camminare insieme, ci sarà da crescere nello stile del dialogo, della attenzione, della paziente attesa, della reciproca conoscenza e comprensione, dell’amore a Cristo Signore, e del pieno coinvolgimento di tutti nell’avventura di grazia di questa nostra Chiesa chiamata ad annunziare il Vangelo del Regno all’uomo del Terzo Millennio.

 

CONCLUSIONE

Non posso, a conclusione di questa prima lettera sinodale, non esprimere la mia gratitudine a tanti miei collaboratori nel servizio pastorale a questa nostra Santa Chiesa, soprattutto presbiteri, che hanno scritto in qualche modo con me questa lettera, attraverso contributi, integrazioni, aggiunte, correzioni, revisioni.

È stata una fatica lunga ma che ci aiuta a proseguire nell’itinerario della comune passione per il regno di Dio e nella responsabile condivisione dell’impegno teso a far emergere e a discernere con consapevolezza le variegate ricchezze che il dono dello Spirito suscita e porta a tutti noi.

In fondo anche questo sforzo si iscrive nel camminare insieme, originalità peculiare e unica dell’esperienza e della stagione sinodale.

Per la nostra Chiesa la stagione del Sinodo dovrà essere un grande e significativo tempo di grazia in cui la condivisione di un impegno e l’esperienza di un comune itinerario ci aiuteranno a scoprire le ragioni del nostro essere chiesa intenta a rimodellare i suoi connotati alla luce del progetto che Cristo Signore le affida. Il recupero sereno, fermo e motivato della grande virtù della speranza con cui il Signore, trasformandoci con il battesimo in figli a lui graditi e prediletti, ci costituisce nella Chiesa e per il mondo in uomini nuovi, è una delle mete che intendiamo raggiungere per essere profeti del mondo nuovo: il Regno di Dio.

Difficoltà, appiattimenti, paure di ogni genere, inadempienze a vari livelli, non sempre riescono a presentare il volto autentico della Chiesa che il Signore Gesù ha voluto per noi. Ritrovarci tutti attorno a Cristo per lasciarci interrogare e interpellare dalla sua parola, camminare insieme sostenendoci nella fatica del passo incerto, lasciarci illuminare dalla luce dello Spirito per ritrovare le sembianze e l’autenticità del nostro essere Chiesa, non può non suscitare in tutti noi uno stile di fedeltà nuova che muove a un impegno nuovo: «Chi spera in Cristo non si adatta alla realtà così com’è ma comincia a soffrire e a contraddirla. Pace con Dio significa discordia con il mondo, poiché il pungolo del futuro promesso incide inesorabilmente nella carne di ogni incompiuta realtà presente»[44].

La nostra è una speranza con strani connotati: non la tranquilla speranza di chi, arrivato alla meta, gusta la felicità del traguardo raggiunto, ma quella di chi, superata una tappa, avverte che il traguardo è ancora più avanti e non ci si può fermare perché la gioia non è piena.

Questo cammino, scandito da gesti e proposte varie, vedrà tutta la nostra Chiesa costantemente in stato di santa convocazione, sorretta dalla forza dello Spirito, sostenuta dalla luce e dalla novità della Parola di cui ci faremo ancor più ascoltatori e discepoli, in un interscambio continuo di carità operosa.

L’esperienza più vera e più decisiva, ai fini della ripresentazione del volto nuovo della nostra Chiesa, sarà la costante ricerca di comunione che deriverà dal camminare insieme, dalla concordia delle opere e dalla comune valutazione delle scelte che andremo a compiere per non intristire o costringere a inutili attese lo Spirito che bussa alla porta e al cuore di questa nostra Santa Chiesa.

Invito tutti voi, fratelli e sorelle, al gesto della preghiera perché il Signore accompagni con la sua grazia la preparazione e la celebrazione del Sinodo Diocesano inserito nell’itinerario che conduce la Chiesa tutta al Giubileo dell’Anno Duemila.

Ai Santi Patroni della nostra Chiesa Basso e Pardo, a S. Timoteo, ai SS. Martiri Larinesi, la nostra invocazione perché con la loro impetrazione affianchino questo singolare tempo di grazia che siamo chiamati a vivere.

A Maria, Madre del Redentore, chiediamo un particolare aiuto di intercessione e protezione perché sia per la Chiesa di Termoli-Larino in cammino sinodale la stella che ne guida con sicurezza i passi incontro al Signore. L’umile fanciulla di Nazareth, che duemila anni fa offerse al mondo il Verbo incarnato, orienti – la nostra Chiesa – verso Colui che è “la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1,9)[45].

 

Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo (Rm 15,13).

 

 

Con la benedizione del Signore.

 

 

 

Termoli,25 dicembre 1997.

Solennità del Natale del Signore

 

 

 

 


[1] M. ZERWICK, Lettera agli Efesini, Città Nuova, Roma 1982 , p. 79.

 

[2] B. FORTE, La Chiesa della Trinità. Saggio sul mistero della Chiesa comunione e missione, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, p.59.

[3] Lumen Gentium, n.9, in EV 1/308.

[4] Lumen Gentium, n.4, in EV 1/288.

[5] Lumen Gentium, n.9, in EV 1/309.

[6] CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Comunione e comunità:I Introduzione al piano pastorale, n.4, in ECEI, 3/636.

[7] CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, n.3, in EV 13/1777.

[8] GIOVANNI PAOLO II, Christifideles laici, n.18, in EV 11/1674.

[9] GIOVANNI PAOLO Il, Christifideles laici, n.20, in EV 11/1684.

[10] Lumen Gentium, n.5, in EV 1/290.

[11] Cfr. Christus Dominus, n. 11, in EV 1/593.

[12] L. CHIARINELLI, “La Chiesa locale: esperienze e progetto”, in AA.VV., Il Vaticano II nella Chiesa italiana: memoria e profezia, Cittadella, Assisi 1985, p.199.

[13] Christus Dominus, n.11, in EV 1/593.

[14] L. CHIARINELLI, art. cit., p, 195.

[15] GIOVANNI PAOLO Il, Christifideles laici, n. 32, in EV 11/1742.

 

 

[16] D. D’AMBROSIO, “Omelia in occasione della chiusura della Visita Pastorale”, in Vita Pastorale. Bollettino ufficiale della Diocesi di Termoli-Larino, 1993 (numero unico), p. 82.

[17] GIOVANNI PAOLO II, “Lettera al vescovo di Termoli-Larino in occasione del 50° anniversario del rinvenimento delle reliquie di S. Timoteo”, in L’osservatore Romano, 5 maggio 1995.

[18] CONGREGAZIONE PER I VESCOVI- CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE, Istruzione sui Sinodi diocesani, in Il Regno-Documenti, 17/‘97, p.520.

 

 

[19] GIOVANNI PAOLO II, Tertio millennio adveniente, libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1994, n.44.

[20] Ivi, n.45.

[21] T. CITRINI, “Camminare insieme nella memoria di Gesù. Riflessione teologica sui sinodi diocesani”, in La Rivista del Clero italiano 68 (1987), p. 247.

 

 

[22] CONGREGAZIONE PER I VESCOVI – CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE, Istruzione sui Sinodi diocesani, cit., p.520.

[23]A. MASTANTUONO, “Chiesa locale e sinodalità. Spunti di riflessione a partire dall’esperienza dei sinodi diocesani”, in Rassegna di teologia 38 (97), 3, p.376.

 

 

[24]CONGREGAZIONE PER I VESCOVI – CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE, Istruzione sui Sinodi, cit., p.520.

[25] GIOVANNI PAOLO II, Christifideles laici, n. 32, in EV 11/1742.

[26] GIOVANNI PAOLO II, Christifideles laici, n.35, in EV 11/1754.

[27] Christus Dominus, n.36, in EV 1/680.

[28] E. CAPPELLINI – G. G. SARZI SARTORI, Il Sinodo diocesano. Storia, normativa, esperienze, San Paolo, Cinisello Balsamo 1994, p. 171.

[29] ivi, p.172.

[30] CONGREGAZIONE PER I VESCOVI – CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE, Istruzione sui Sinodi, cit, p.520.

 

[31] PAOLO VI, Octogesima adveniens, nn.3-4, in EV 4/716-717; CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, La Chiesa in Italia dopo Loreto, n.32 , in ECEI 3/2676-2677.

[32] CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Con il dono della carità dentro la storia. La Chiesa in Italia dopo il Convegno di Palermo, n.21, in Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia. Atti del III Convegno ecclesiale (Palermo, 20-24 novembre 1995), AVE, Roma 1997, p.29.

[33] Ibidem.

[34] CONGREGAZIONE PER I VESCOVI – CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE, Istruzione sui Sinodi, cit., p.520.

[35] Ibidem.

[36] V. VAILATI, Lettera di indizione, in Sinodo dell’Arcidiocesi Manfredonia-Vieste, Grafica Baal, San Giovanni Rotondo 1990, pp.34-35.

 

 

[37] M. MAGRASSI, Giubileo e Sinodo: un binomio affascinante, Ecumenica Editrice, Bari 1996, pp.95-97 passim.

[38] T. CITRINI, art. cit., p.251.

[39] C. M. MARTINI. “Il vento e il fuoco della Pentecoste”. Messaggio ai sinodali e a tutta la comunità diocesana, in Rivista Diocesana Milanese 85/5, (94), p.667.

[40] CONGREGAZIONE PER I VESCOVI – CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE, Istruzione sui Sinodi diocesani, cit., p.520.

[41] T. CITRINI, art. cit., p.253.

[42] T. CITRINI, art. cit., p.254.

[43] CONGREGAZIONE PER I VESCOVI- CONGREGAZIONE PER L’EVANGELIZZAZIONE. Istruzione sui Sinodi diocesani, cit., p.520.

[44] J. MOLTMANN, Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1972, p.15.

[45] GIOVANNI PAOLO II, Tertio Millennio adveniente, op. cit. n. 59.